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Syllabus nuova ECDL, cosa cambia con la versione 6.0?

Il nuovo Syllabus 6.0 introduce alcuni cambiamenti nelle certificazioni ECDL, ma nel 2019 non sarà ancora obbligatorio.

Nell’ultimo trimestre del 2018 è stata rilasciata la versione 6.0 di Syllabus, cioè il programma di studi richiesto per conseguire la Patente Europea per l’uso del computer.

Per il momento però chi ha appena preso una certificazione ECDL o sta studiando non si deve preoccupare. Il Syllabus 5.0 infatti resterà in vigore a tempo indeterminato.

Cosa deve fare chi ha preso una certificazione ECDL con il Syllabus 5.0?

In breve, nulla, la sua certificazione rimane valida, e al momento non sembrano essere previsti nemmeno esami “bridge” per chi vuole passare al syllabus della nuova ECDL in versione 6.0. Consideriamo anche che al momento il nuovo syllabus è stato rilasciato solo per alcuni moduli, in particolare:

  • Word processing
  • Fogli di Calcolo
  • Presentazionie
  • Basi di dati

Probabilmente anche per questo motivo al momento, come abbiamo visto, non sono previste richieste di aggiornamento.

Si possono ancora sostenere gli esami con il Syllabyus 5.0?

Assolutamente si. Secondo Il sito ufficiale ha una pagina dedicata proprio a questo tipo di domande, nella quale possiamo leggere che al momento non è prevista una data di dismissione per il Syllabus 5.0.

Per ora il Syllabus 6.0 insomma sarà facoltativo: non ci saranno disservizi o complicazioni per chi sta sostenendo gli esami di certificazione ECDL e ha iniziato con la versione 5.0

Quali sono le differenze fra Syllabus 6.0 e Syllabus 5.0?

Anche in questo caso ci viene in aiuto il sito ufficiale, che ha messo a disposizione una comoda scheda comparativa in cui sono elencate solo le novità introdotte con l’ultima versione. Le riporto qui per completezza:

Come possiamo notare, al momento si tratta di una serie di modifiche non troppo impattanti, che conservano intatta la dinamica della certificazione ECDL. Facendo il confronto con quanto era accaduto con il passaggio dal syllabus 4.0 al syllabus 5.0, potremmo avere l’impressione che si tratti di un aggiornamento “minore”.

Per la verità va detto che, per chi lo ricorda, il syllabus 5.0 aveva avuto anche il compito piuttosto impegnativo di traghettare ECDL dal sistema di controllo classico delle versioni di Microsoft Office fino alla 2003 verso il sistema Ribbon “a schede” utilizzato da Office 2007 in poi.

Word 2003, con il vecchio sistema di controllo a menu
Microsoft Office Word 2007
Office 2007, con il sistema di controllo a schede

Da allora il sistema di controllo di Office è cambiato nella sostanza, ma la logica a schede è rimasta invariata (e non sembra destinata a cambiare a breve). Questo rende logico il passaggio da Syllabus 5.0 a 6.0 “morbido”: i saperi devono essere aggiornati ma non serve riprogettarli.

algoritmi di raccomandazione

Come gli algoritmi di raccomandazione “governano” il mondo.

I sistemi di raccomandazione, o algoritmi di raccomandazione, sono onnipresenti in qualsiasi sito o servizio mediamente evoluto. Con conseguenze dirompenti, e non sempre positive, sulla nostra vita.

Alzi la mano chi non è mai incappato in un suggerimento su un sito di shopping, su un trending topic o su un post ampiamente condiviso e si è chiesto perché vedo questa roba?

La risposta è semplice: algoritmi di raccomandazione. I sistemi di raccomandazione sono ampiamente usati, dai servizi maggiori ma anche quelli minori (anche questo sito ne ha uno a fondo pagina che suggerisce altri articoli potenzialmente interessanti).

I motori di raccomandazione sono ovunque

Una premessa: questa riflessione, come accade spesso, non è farina del mio sacco, ma è ampiamente riportata da questo interessante articolo di Wired USA, che spiega, in modo semplice e chiaro, il funzionamento, e soprattutto i limiti, degli algoritmi di raccomandazione. Consiglio a chiunque mastichi l’inglese di leggere l’originale, ma ne riporto qui un sunto dei concetti fondamentali. Per comodità, la “narrazione” dell’articolo originale ha uno sfondo diverso. Il resto sono mie considerazioni

rete algoritmi raccomandazione

Il primo problema degli algoritmi di raccomandazione è che tendono all’autoreferenzialità

Tutto parte dall’autore che nota un libro quantomeno peculiare indicato fra quelli “caldi” suggeriti da Amazon. Le vendite si sono impennate quando il libro è finito nel carosello dei suggeriti, il che ha portato una crescita dell’interesse e così via. 

Beh, questo è abbastanza semplice da capire: quando un prodotto o un tema diventano trending, vengono mostrate a più persone. Il che ne aumenta le possibilità di essere visualizzato. Il che aumenta le discussioni in merito. Visualizzazioni, discussioni e feedback sono i tre pilastri degli algoritmi di raccomandazione di questo tipo. Questa è una debolezza notevole, perché una volta entrati, si crea un circolo di crescita praticamente esponenziale. E lo sforzo marginale per rimanerci , specie se si tratta di prodotti, è relativamente basso.

Everywhere you look, recommendation engines offer striking examples of how values and judgments become embedded in algorithms and how algorithms can be gamed by strategic actors.

“Ovunque guardi, i motori di raccomandazione offrono esempi lampanti di come valori e giudizi vengono inclusi negli algorimti e come gli algorimi possono essere manipolati dagli attori strategici”

Il secondo problema dei motori di raccomandazione è che sono imprecisi

rete algoritmi cyberspazio

Uno dei sistemi di raccomandazione più diffusi è basarsi su quello che le persone “come noi” hanno letto, guardato o acquistato. Ma cosa significa esattamente “come noi”? Si tratta di una questione di età, genere, razza? Gente con gli stessi interessi? Che ci somiglia fisicamente? O piuttosto si tratta delle nostre “fattezze digitali” basate sui dati granulari che i diversi sistemi raccolgono su di noi e poi dati in pasto a un sistema di machine learning?

Insomma, le persone come noi, sono semplicemente persone con una impronta digitale simile alla nostra. Il che spesso si riduce a quelle accettabilmente simili, che è un modo carino per dire che i sistemi prendono su i dati più simili che hanno. Non serve avere un dottorato di ricerca in statistica per capire che in mancanza d’altro, useranno dati con pochissime cose in comune.

Il terzo (e più grave) problema è che gli algoritmi di raccomandazione favoriscono gli stereotipi

Deep down, behind every “people like you” recommendation is a computational method for distilling stereotypes through data.

“Scavando a fondo, dietro ogni algoritmo del tipo “le persone come te”, c’è un metodo computazionale per distillare stereotipi attraverso i dati.

Ricordiamo un concetto fondamentale: gli algoritmi non sono nostri amici, sono macchine pensate per massimizzare il ricavo. E per ragioni meramente statistiche, tenderanno sempre a proporci quello che “il mercato” sembra volere. Quello che cambia è la dimensione della nicchia che viene presa come riferimento, a seconda di quanti dati abbiamo già regalato al sistema di profilazione.

Il passaggio successivo è meramente logico: “statisticamente probabile” e “stereotipo” sono simili in maniera preoccupante, quantomeno nelle logiche di mercato.

La prova, possiamo averla tutti i giorni, e ne ho già parlato quando suggerivo di ingannare gli algoritmi quando prepariamo un computer per “anziani” o per utenti poco esperti. Basta avviare un processo di selezione per fare in modo di ricevere quasi solo suggerimenti provenienti dalla nicchia di riferimento. Oppure (peggio ancora) un mix delle nicchie di riferimento calcolate e di temi “caldi” scelti sulla base di parametri estremamente volatili.

codice algoritmi raccomandazione

Infine, gli algoritmi di raccomandazione privilegiano il sensazionalismo

“…most trending-type recommendation algorithms employ a logic that filters out common terms as background noise and highlights those that have acceleration and velocity on their side.”

“…molti algoritmi di raccomandazione basati sui trend usano una logica che filtra i termini comuni come rumore di fondo e mettono in evidenza quelli che hanno accelerazione e velocità dalla loro parte”

Il problema è che questo seppellisce di fatto qualsiasi tipo di conversazione che abbia un grande volume costante nel tempo. Per esempio nel caso della cronaca i problemi costanti come la salute, il welfare, l’impiego, pur essendo oggetto di moltissime conversazioni, lasciano ampio spazio agli eventi più rari, che ottengono una copertura sproporzionata.

Ironicamente, osserva l’autore, questo è un problema in comune con la carta stampata. Come a dire che di tutto quello che i nuovi media potevano ereditare da quelli tradizionali, hanno preso il peggio.

La parte peggiore è che questo tipo di algoritmi di raccomandazione è estremamente debole e manipolabile.

Il problema di usare l’accelerazione mediatica come valore è che è fin troppo semplice manipolare l’algorimo. Un hashtag o una notizia condivisi dal giusto numero di persone in un tempo sufficientemente rapido, diventeranno virali con molta facilità. Alcuni attivisti di diverse aree hanno già imparato a mettere in pratica questa strategia, preparando interventi con lo stesso hashtag (nell’ambito di Twitter) e postandoli in modo coordinato.

Ma se funziona per Twitter, perché non dovrebbe funzionare anche in altri ambiti? Se per esempio cinquemila fan di un autore (o diecimila attivisti di qualche schieramento) si coordinano per effettuare lo stesso acquisto su Amazon nello stesso momento, quale può essere l’accelerazione conferita al prodotto acquistato?

Una domanda più che lecita perché, se davvero bastasse qualche migliaio di transazioni, “finanziare” un acquisto coordinato potrebbe essere un investimento strategico più efficace di quelli tradizionali.

La soluzione? Rendere gli algoritmi di raccomandazione più trasparenti. O eliminarli del tutto.

Grandi problemi ed enormi limiti, che tuttavia hanno soluzioni piuttosto semplici. Le aziende sono molto gelose del funzionamento dei loro algoritmi. Il sospetto che tale riservatezza nasconda il timore che possa crollare il castello di carte è più che lecito. Se ci fosse più trasparenza nell’indicazione di quello che è “trending” o “consigliato”, sarebbe più semplice per chi vede le proposte decidere cosa fare.

Così come sarebbe quantomeno doveroso, nelle piattaforme in cui sono possibili le sponsorizzazioni, che il sistema mostrasse in chiaro che percentuale della copertura del contenuto è stata a pagamento. Una specie di “certificato di nascita” che di permetta di capire se stiamo vedendo un determinato contenuto per la sesta volta perché è davvero interessante oppure perché qualcuno lo sta sponsorizzando di continuo.

L’alternativa più radicale, ma anche più semplice, sarebbe quella di eliminare gli algoritmi di raccomandazione. Ormai è chiaro che il loro funzionamento lascia molto a desiderare, e spesso non piacciono agli utenti, come dimostra il recente passo indietro di Twitter verso il semplice sistema cronologico.

Il tutto avrebbe almeno due vantaggi: il primo verso l’utente. Ammettiamolo, vedere sempre le stesse cose sapendo che una piattaforma contiene una varietà quasi infinita di contenuti è frustrante. Il secondo vantaggio sarebbe economico: invece di spendere risorse ad inseguire un sistema di raccomandazione scadente ma sempre più complesso e oneroso in termini di calcolo, si potrebbero abbattere i costi, aumentando i margini ed evitando di dovere elaborare sistemi di raccomandazione sempre più stingenti che consumano più risorse senza un reale incremento dell’efficacia. Oggi infatti le aziende investono sulla speranza che un giorno gli algoritmi inizino a funzionare sul serio.

Cosa che però sembra ogni giorno più improbabile, alla luce dei continui problemi di privacy, uso antietico dei dati e fughe di informazioni che quotidianamente minano i servizi che fanno maggiore uso degli algoritmi di raccomandazione.

Google Perde la memoria

Google ha smesso di indicizzare le pagine vecchie

Google sta perdendo la memoria. O non gli è mai interessato averla?

Una notizia circolata sotto traccia nelle settimane passate potrebbe invece avere implicazioni dirompenti nel futuro della Rete: Google ha smesso di indicizzare i siti più vecchi di dieci anni.

Emersa solo in pochi siti mainstream (e guarda caso in nessuno italiano), la scoperta è stata fatta da Tim Bray, uno dei blogger della prima ora. Che nel tentativo di ritrovare alcuni suoi vecchi scritti, non è stato in grado di recuperarli attraverso Google.

Google perde la memoria o la abbandona?

Prima di pensare a un banale caso di incapacità, va detto che Bray è uno che sa il fatto suo: era già su Internet quando Google era agli albori e prima di esprimersi sulle pagine del suo blog ha fatto tutte le prove del caso, anche usando frasi esatte, ricerca per sito e così via.

Poteva farlo, perché era alla ricerca di suoi articoli di cui aveva il testo completo.

Sull’onda del lavoro di Bray, anche Marco Fioretti ha fatto una prova simile, con analoghi risultati. A questo punto le conferme iniziano a moltiplicarsi, e la notizia appare anche su altre fonti, per esempio boingboing.net.

Ma quindi Google non indicizza tutto il Web?

Per la verità, non lo ha mai fatto. Pensare che Google contenga tutte le pagine mai create è sempre stata una semplificazione. Sulla quale ci siamo adagiati tutti perché, fino a ora, nessuno si era mai posto il problema delle pagine datate. Nonostante il lavoro instancabile di realtà come The Internet Archive che senza troppo clamore tentano da anni di arginare questo fenomeno.

Insomma, finora nessuno si era mai accorto che il re era nudo

O forse, nessuno di autorevole si era preso la briga di andare a fondo. Ora appare chiaro che Google non ha alcun interesse nell’archiviare Internet di per sé, quanto nel fornire le risposte statisiticamente più commerciabili alle domande statisticamente più prevedibili. Insomma, a restituirci la parte vendibile del Web, trascurando tutto il resto.

Lo spiega perfettamente Tim Bray, con parole che provo a tradurre:

[Google] Si preoccupa di fornire buone risposte alle domande che contano per noi in questo momento. Se digito una domanda, anche qualcosa di complicato e oscuro, Google mi sorprende spesso con una risposta puntuale e precisa. Non hanno mai affermato di indicizzare ogni parola su ogni pagina.

Il mio modello mentale del Web è un archivio permanente e duraturo del patrimonio intellettuale dell’umanità. Perché questo sia utile, deve essere indicizzato, proprio come una biblioteca. Google apparentemente non condivide questo punto di vista.

Insomma. Google non è mai stato un archivio, (e per la verità non ha mai annunciato da nessuna parte di esserlo o volerlo essere).

Una scoperta che delinea il futuro di Google

Negli ultimi anni si fa un gran parlare della differenza fra motore di ricerca e motore di risposta. Google ha evidentemente una maggiore inclinazione per il secondo. Tuttavia questo secondo me è un problema, almeno per due motivi:

  • L’umanità non è culturalmente pronta a capire la differenza fra un macro-assistente virtuale che dà buone risposte e un reale sistema biblioteconomico in grado di raccogliere, e restituire, tutto lo scibile
  • al momento non esistono alternative al “qui e ora” voluto da Google. Anche se sembra che Bing e DuckDuckGo abbiano un approccio più sano nei confronti della memoria storica.

Certo, Esistono anche soluzioni specifiche per il Web “abbandonato”, come Archive.org e wiby.me, un motore di ricerca per “siti classici”. Ma manca la consapevolezza da parte degli utenti.

Chiedete a trenta persone che conoscete, ventinove vi risponderanno che su Google si trova tutto. E questo è un colossale problema.

Di fatto, lo scibile umano è in mano a un’azienda a fini di lucro

D’accordo, nella realtà non è propriamente così. Biblioteche e realtà virtuose come Archive esisteranno sempre. Ma quante sono, in percentuale, le persone che si accontentano dei risultati di Google e quante quelle che vanno oltre?

Parliamoci chiaro, chi si occupa di SEO lo sa più che bene: già essere fuori dalla prima pagina significa essere in una sorta di cimitero degli elefanti. Figuriamoci essere fuori da Google.

Il problema degli algoritmi si manifesta ancora una volta

Anche se ovviamente non c’è nessuna posizione ufficiale in materia, le ragioni di questa scelta sono ovvie: indicizzare le pagine web costa. E per un’azienda a fini di lucro, tutto quello che non è profittevole è dannoso. Fino qui nulla di sbagliato.

Ma cosa succederà se domani Google dovesse decidere di “tagliare” a cinque anni, o a sei mesi?

Sarebbe nel suo pieno diritto. Ma il patrimonio di conoscenza che potrebbe diventare irrecuperabile nel giro di pochi giorni potrebbe essere infinito. Poco importa se si tratta di fanfiction, meme sciocchi o opere d’arte. Rimane il problema che il lavoro di molti esseri umani potrebbe essere “oscurato” da una macchina nel giro di una notte.

Cosa possiamo fare per evitare di essere dimenticati da Google?

A lunghissimo termine, e con una visione piuttosto utopica, darci da fare per un Web in cui non esistano monopoli di fatto, al contrario di quello che succede ora. Favorire la frammentazione, la diffusione di standard, il diritto all’interscambio dei propri dati, la liquidità delle piattaforme. Evitando, per quanto possibile, i servizi che sappiamo adottare politiche poco trasparenti e in ogni caso quelli che detengono qualche tipo di monopolio.

L’utopia massima sarebbe un sistema in cui ciascuno possiede i propri dati in via esclusiva, e le diverse piattaforme li interrogano e li mettono in relazione in modo controllato. Ma rassegnamoci: è impossibile, anche dal punto di vista tecnico, almeno con la tecnologia di ora. Quantomeno è impossibile in una logica di scala.

A medio e breve termine, ricordarci e ricordare che Google non è il solo motore di ricerca: Bing e DuckDuckGo stanno iniziando a essere valide alternative, ma anche l’europeo Qwant. Usarli può essere impervio oggi, ma potrebbe essere il primo tassello per una Rete meno schiava degli algorimi. O per lo meno ridurre la dipendenza da un numero limitatissimo di algoritmi.

Insomma, l’umanità dovrebbe sforzarsi di non fare con la tecnologia l’errore che ha fatto svariati millenni fa quando si è lasciata addomesticare dal grano.

Ne parlerò meglio in futuro, ma oggi sta accadendo esattamente questo: invece di essere l’informatica ad adattarsi alle necessità dell’umanità, l’umanità si sta piegando alle nevrosi del digitale. Invece di creare motori di ricerca realmente efficaci, ci sforziamo di scrivere nel modo che i motori di ricerca possono comprendere.

Invece di usare l’intelligenza artificiale per un riconoscimento realmente efficace della scrittura a mano o della parola scritta, ci deformiamo le articolazioni sulle tastiere. invece di avere sistemi che ci permettono di aggregare le informazioni in modo semplice ed efficace, passiamo le ore a ingolfarci di informazioni inutili sui social media.

In qualche modo, sembra che l’unica cosa che ci importi è faticare il meno possibile, fisicamente e intellettualmente, quando l’essenza stessa dell’essere umano dovrebbe spingerci verso il contrario.

Ci ricordiamo tutti la fine che hanno fatto gli eloi, vero?

computer per anziani

Se state preparando un computer per anziani, ingannate gli algoritmi

Come molti probabilmente sanno, i corsi di informatica (o più pomposamente “corsi di Digitale”) sono la mia passione. E negli ultimi anni, grazie alla fiducia dell’Agenda Digitale Biellese mi sto interessando molto ai corsi di informatica per anziani. Facendo ricerche sui computer per anziani mi sono imbattuto in questo consiglio, che francamente è forse il più intelligente che abbia letto. Sostanzialmente, si tratta di quello che ho anticipato nel titolo.

Se state preparando un computer per gli anziani della famiglia, ingannate gli algoritmi

Lifehacker, il sito da cui ho preso spunto, in realtà la fa molto più morbida, ma il concetto di fondo è proprio questo: manipolare gli algoritmi dei vari siti per rendere i contenuti dei siti principali più appetibili per gli anziani, che magari non hanno molta confidenza con il Digitale. E ai quali di sicuro non frega niente dell’ultima challenge in cui i dementi affamati di popolarità si cimentano.

Come preparare un computer per anziani manipolando i vari algoritmi

So che in teoria sembra una roba alla codice swordfish, ma in realtà il principio è molto semplice, ed è stato collaudato con successo dal redditor u/TyrKiyote, che lo ha colludato per YouTube.

Dopo aver preparato il computer per gli anziani con i soliti accorgimenti (scorciatoie sul desktop, sicurezza e così via), si tratta semplicemente di aiutarli a iscriversi ai vari servizi. In questo caso, YouTube. E subito dopo, prima di qualsiasi altra cosa, effettuare qualche ricerca su temi di loro interesse. L’esempio parla di Glen Campbell, ma funziona qualsiasi cosa.

computer per anziani

Che sia orticultura, musica d’annata, giardinaggio, pesca o musei, facciamo in modo di guardare e apprezzare subito video che rientrino nell’interesse della persona per cui stiamo sistemando il computer.

Secondo l’esperienza del redditor, e di altri che hanno provato, fa una differenza enorme.

Possiamo usare lo stesso trucco con tutti i siti che si basano su algoritmi per la scelta dei contenuti

Che sia Facebook o Google, Amazon o un qualsiasi altro sito con filtri “intelligenti”, questo semplice trucchetto ha del miracoloso, secondo quanto riportano da più parti.

Perché un trucco così semplice funziona così bene?

Semplicemente perché gli algoritmi che stabiliscono cosa vediamo e cosa no in realtà non sono così intelligenti come vorrebbero farci credere. Infatti non possono fare altro che raccogliere quelli che sono gli interessi che abbiamo già manifestato e in qualche modo proporci qualcosa di simile.

E se per modificare il comportamento per chi, come me, ha decine di anni e migliaia di ore di navigazione sulle spalle ci vuole moltissimo tempo, su un account nuovo e privo di memoria storica ci vuole pochissimo.

Provare per credere. Se siete curiosi, la prossima volta che avete sotto mano un computer o un dispositivo nuovo, provate a creare un nuovo utente Google, per esempio, ed effettuare un paio d’ore di navigazione monotematica sui siti sopra citati.

In men che non si dica sembrerà che Internet sia costituita solo da quello che avete cercato. Un piccolo trucco con un grande potenziale: dimostrare ancora una volta il grande limite degli algoritmi. Non è un caso che anche le aziende stiano facendo marcia indietro in questo senso, tornano a una gestione più centrata sulle persone.

Un consiglio perfetto anche per i corsi di informatica per anziani

Una delle principali accuse che vengono mosse oggi al mondo digitale è di non essere inclusivo. In particolare, quando tengo i corsi di computer per anziani, l’impressione è che il Web non abbia niente di interessante per loro. E molto spesso è sufficiente qualche ricerca per dimostrare il contrario.

lezioni di computer per anziani

Da questo nasce il mio suggerimento: usiamo il più spesso possibile trucchi come questo. Non devono essere gli utenti ad adattarsi al Digitale: deve essere il Digitale al nostro servizio. E grazie a questo piccolo trucco possiamo fare un passo nella giusta direzione.

Un invito che estendo a tutte le persone che, in qualche modo, si trovano a dover preparare un computer per anziani, o più in generale per principianti. Se è vero che una volta installato e configurato le cose possono funzionare da sole, è anche vero che le prime ricerche, le prime navigazioni, le prime cose cercate costituiscono, nell’era degli algoritmi (semi)intelligenti, una sorta di imprinting, che accompagnerà le persone nei mesi successivi. E noi che sappiamo come funziona abbiamo in qualche modo il dovere morale di fare in modo che siano gli algoritmi al servizio delle persone e non le persone al servizio degli algoritmi.

Perché ho deciso di fare mio questo suggerimento

Sarà oggetto di una serie di post più approfonditi in futuro, ma anni di vita immerso nel mondo digitale mi stanno convincendo che noi utenti abbiamo scelto un ruolo troppo passivo.

Il feed dei social media posta fuffa, ma siamo troppo pigri (o poco competenti) per adattarlo usando i vari “non mi interessa” o “non seguire più”. Le piattaforme video ci mostrano contenuti che non ci interessano, ma usare il “non mi piace” sembra quasi un’offesa. E così via.

Penso che invece sia importante che tutti abbiano piena consapevolezza di quello che leggono, guardano comprano. Consapevolezza che passa anche dal sapere che gli algoritmi possono e devono essere educati per essere al nostro servizio, non viceversa.

E chi, come me, tiene corsi di informatica ha il dovere morale di spiegarlo, per evitare nuove generazioni di utenti inconsapevoli.

Editoria Digitale ai tempi del post algoritmo

Editoria digitale: il 2018 è l’anno del fallimento degli algoritmi

Il flagello dell’editoria digitale, la raccomandazione in base ad algoritmi, mostra finalmente le sue debolezze. Il 2018 sarà l’anno della risalita?

A oggi, uno dei pilastri dell’editoria digitale è senza dubbio la SEO. La disciplina, cioè che permette di far primeggiare una pagina fra i risultati delle ricerche.
Non si tratta affatto dell’unica strategia, ma oggi è senza dubbio una delle più frequentate, per una serie di ragioni che ho già approfondito. 

Questo però ha creato una grande frattura, e una discrasia che solo un media potente come Internet poteva mostrare, ovvero il totale ribaltamento del concetto di successo nell’editoria digitale.

Editoria digitale, l’odio per la SEO e l’algoritmo impietoso

Mi spiego rapidamente: i colleghi giornalisti e le testate tradizionali, hanno visto il loro spazio contrarsi sempre di più, sotto i colpi dei “siti Internet” prima, e dei contenuti ottimizzati per la SEO poi.

A oggi, sono ancora pochi i giornalisti veri, i professionisti del settore, in grado di fare una buona SEO. Per dirla tutta, i giornalisti mediamente sono dei cani con la SEO.

Ma il problema vero è un altro, il ribaltamento di cui parlavo: il fatto che l’algoritmo premi la SEO (che è per definizione una disciplina algoritmica, anche se speculativa) ha fatto si che nelle prime pagine dei motori di ricerca molto spesso si trovino articoli scritti da bravissimi specialisti SEO, che però sono dei cani come giornalisti, e molto più spesso non lo sono affatto.

Parliamoci chiaro, io faccio entrambe le cose. Quindi, per definizione, sono un cane in entrambe. Ma purtroppo il 90% della SEO moderna, almeno secondo chi usa tecniche e strumenti, si basa semplicemente sulla forzatura dell’algoritmo. Si tratta solo di far leva sui tasti giusti. Così come nel giornalismo tradizionale si tratta spesso si fare leva sempre sui tasti giusti, ma delle persone.

Uno degli aspetti più negativi della “democrazia digitale” quindi, è di tenere costantemente il lettore distratto (nel senso classico di “tirato da due parti”) fra testi impeccabili dal punto di vista tecnico ma poveri da quello dei contenuti, e viceversa, cioè contenuti ricchissimi dal punto di vista dei contenuti ma così terribili dal punto di vista del posizionamento da dover essere letteralmente cercati col lanternino, come diciamo noi piemontesi.


Cosa sta succedendo all’algoritmo?

Lo ammetto, pur praticandola (e cavandomela discretamente nella materia) non ho alcuna simpatia per la cosiddetta scrittura SEO. Per due ragioni: perché continuo a pensare che sia una scorciatoia messa in atto da chi non sa scrivere davvero, e perché quando scrivo vorrei poterlo fare per chi mi legge, non per un algoritmo che mi valuta

Sento già i nerdissimi in lontananza: ok, non è un algoritmo, è intelligenza artificialemachine learning, o comunque un sistema estremamente raffinato. Ma è sempre una “macchina” che non capisce la banale ironia, per esempio. Vogliamo davvero tornare a ricordarci di quando il sistema di eliminazione delle fake news di Facebook mise al bando la testata umoristica Lercio?

In ogni caso, che gli algoritmi abbiano stancato è piuttosto evidente per tutti. Comprate una maglietta con un gattino su un popolare sito di commercio elettronico e da quel momento riceverete solo pubblicità di magliette con gattini. Mettete per sbaglio un “mi piace” a un post di un amico che parla di politica, e quale che sia la vostra convinzione, da quel momento verrete invasi di post di politica.

Per non parlare delle ricerche: fra geolocalizzazione, cronologia delle pagine visitate e delle ricerche fatte in passato, anche i risultati lasciano sempre più il tempo che trovano.

Insomma, gli algoritmi stanno fallendo. Non tanto perché inefficaci, ma perché troppo spesso lasciati a loro stessi, usati solo per monetizzare e per questo troppo ansiosi di assecondarci. Per non parlare di quanto siano proni ad hack di varia natura. (La SEO, a ben pensarci, altro non è che la disciplina di sfruttare l’algorimo a nostro vantaggio. Almeno, per chi ha capito e ha deciso di sfruttare solo la parte “comoda” della questione)

Editoria digitale: gli algoritmi si fanno da parte

Ovviamente, forzati dal mercato. Un esempio? Secondo Business Insider, nel 2018 un utente americano su quattro avrebbe disinstallato la App di facebook. Ok, ci sono stati una marea di problemi legati a sicurezza e privacy. Ma se alla gente fregasse davvero qualcosa di sicurezza e privacy, PornHub non potrebbe pubblicare ogni anno il suo geniale Year in Review. Diciamo piuttosto che privacy e sicurezza sono stati il casus belli per liberarsi di qualcosa che interessa sempre meno.
E il motivo dell’interesse decrescente è, guarda caso un algoritmo sempre più arzigogolato e meno efficace. Possiamo verificarlo tutti noi, per esempio rendendoci conto che Facebook tende a mostrarci sempre i post delle stesse persone, quelle con cui interagiamo di più, pensando di farci un favore. Un meccanismo che, alla lunga, sta mostrando più debolezze che forze.

Ma cosa ha a che vedere questo con l’editoria digitale e in particolare con la SEO? Moltissimo. In primo luogo perché Facebook ormai è un asset per moltissime realtà editoriali e poi perché ci spiega come anche i migliori algoritmi siano, nel medio-lungo periodi, molto più fallimentari rispetto alla gestione umana.

O meglio. Gli algoritmi sono ottimi quando servono a potenziare l’essere umano. Quando vengono usati per sostituirlo, generano mostri come le prime pagine dei motori di ricerca di una decina di anni fa, o come la nostra bacheca di Facebook oggi. Se anche una disciplina nobile come gli scacchi riconosce il valore dell’accoppiata uomo-macchina (vedi questo articolo sul Centaur Chess come punto di partenza), allora probabilmente questa è la direzione giusta.
Quindi, pur avendo perso almeno dieci anni, stiamo tornando nella direzione giusta: far fare ai computer quello in cui eccellono come l’estrazione dei dati, e far fare agli umani quello in cui eccellono, come la comprensione avanzata del contesto.

Microsoft e Google nel post-algoritmo

Microsoft ha già fatto il primo passo in questa direzione quando, questa estate, ha lanciato Microsoft News: una App che di fatto è un aggregatore di news, che utilizza sia un sistema di intelligenza artificiale (semplifichiamolo in “algoritmo”) sia la gestione curata dei contenuti da parte di persone. Se vogliamo, un ritorno alle origini, ai tempi dei primi motori di ricerca. 
Anche Google non sta con le mani in mano. Per la verità, non lo è mai stato. Anche se non è una cosa particolarmente conosciuta, Google infatti si affida anche a una rete di quality raters, cioè persone incaricate di valutare il contenuto dei siti web che andranno inclusi nel motore di ricerca. Insomma, la prossima volta che qualcuno ci parla dell’algoritmo di Google come di una figura mitologica o di una macchina senza cervello, ricordiamoci che all’interno del processo, a un certo punto, ci sono anche degli esseri umani, con tanto di linee guida da seguire.

L’editoria digitale dopo l’algoritmo

Ovviamente sarebbe folle pensare che nel breve termine gli algoritmi spariscano, ma è realistico pensare a uno scenario sempre più “misto” in cui al lavoro esclusivamente automatico si affianca quello curato da esseri umani. In alcuni casi sembra essere già così, soprattutto davanti a articoli, testate o accadimenti di particolare rilevanza.
Ma proprio questa ripartenza può essere una perfetta occasione per tutti i professionisti della scrittura che hanno sempre rifiutato le discipline SEO, per opportunità, volontà o per semplice superbia.
Oggi la SEO è ancora rilevante, ma non non è più esasperatamente tecnica come lo era in passato.

Si tratta di un tema che mi sta molto a cuore. Sostengo da sempre, supportato dai fatti ma spesso guardato con sdegno da entrambe le parti, che un buon giornalista con una preparazione basilare sulla SEO sia estremamente più efficace di un professionista SEO con un po’ di preparazione giornalistica. Anche e soprattutto in termini di piazzamento e “tenuta” sui motori di ricerca.

Sfortunatamente molti giornalisti sono molto restii a usare la SEO, perché le regole vengono vissute come una sorta di “gabbia”, di “limite”, o semplicemente perché in fondo non accettano l’idea di dover imparare a scrivere in un modo diverso.

Io, figlio dell’ultima carta stampata, penso che non ci sia poi così tanta differenza con i manuali di stile, le lunghezze, le gabbie di impaginazione e le correzioni con cui si aveva a che fare con i giornali. Chiudo quindi con un piccolo appello che, ribadisco, mi sta molto a cuore: per i giornalisti sarebbe molto facile riconquistare l’editoria digitale

Basterebbe volerlo.

Disattivare Adsense su una pagina

Disattivare AdSense su una pagina (senza diventare matti)

Capita sempre più di rado, ma ogni volta ci si sente un po’ pionieri. Parlo di quando si ha un problema per cui sembra non esistere risposta su Google. Questa volta mi è successo quando ho cercato come disattivare AdSense su una sola pagina di un sito WordPress.
O meglio, quando ho cercato un modo facile di farlo, che non mi richiedesse tre ore di studi approfonditi.

Disattivare gli annunci di Google su una singola pagina.

Possiamo stare a discutere fino a domattina sulla liceità o meno delle segnalazioni di non conformità di AdSense.
Rimane il fatto che quando se ne riceve una, il ban è dietro l’angolo. Tanto vale adeguarsi e disattivare Adsense sulla pagina segnalata.

Diciamolo, gli annunci automatici di AdSense sono una figata pazzesca. Se non altro perché ci permettono di commisurare lo sforzo ai ricavi. Leggi: se i ricavi sono prossimi allo zero, deve esserlo anche lo sbattimento richiesto
In WordPress è ancora più facile. Picchi il codice in header.php e te ne dimentichi.
Almeno, fino a quando non ti arriva una segnalazione di non conformità per una pagina.
Proprio quello che mi è successo qualche tempo fa.
E a cui, a quanto pare, non esiste soluzione. O meglio, stando a quanto ho trovato su Google, infatti, i modi esistono, ma sono tutti terribilmente complicati.

Come ho eliminato gli annunci su una singola pagina: quick and dirty

Ribadisco: ero alla ricerca di una soluzione rapida: esistono plugin estremamente evoluti per la gestione della pubblicità, ma non facevano al caso mio. Si trattava di un sito che usa solo AdSense, non ha progetti di espansione in quel senso e sopratutto che richiede il minimo possibile di manutenzione tecnica.
Quindi, come sempre, dove l’alta tecnologia fallisce, la bassa tecnologia trionfa
Dal momento che non ho trovato nulla che agisse sulla pubblicità, ho fatto un passo indietro. Se non posso lavorare al livello della gestione di AdSense, per disattivare gli annunci di Google su una pagina, devo lavorare a livello di codice
Detto, fatto: ricordate quando ho detto che basta inserire il codice nell’header?  il plugin Addfunc Header & Footer permette di personalizzare header e footer per ciascuna pagina e articolo. Quindi, ecco qui.

Disattivare AdSense su una determinata pagina lavorando sull’Header

A questo punto le cose diventano quasi banali:

  • Installiamo il plugin
  • Rimuoviamo il codice AdSense dall’header generico (o dal plugin che utilizziamo)
  • Impostiamolo nella sezione Site-Wide Head code del plugin, che si trova in impostazioni -> head & footer code
Disattivare Adsense per una pagina specifica header code

A questo punto siamo a metà dell’opera, nel senso che siamo tornati al punto di prima, con gli annunci che appaiono in tutte le pagine.

Per disattivare AdSense su un singolo elemento del nostro sito dobbiamo solo aprire in edit la pagina o il post che ci interessano. Scorrendo un po’ (dipende dai plugin che abbiamo installati) troveremo la voce Head & Footer code

Disattivare Adsense codice pagina

Ora, io che sono un vecchio cinghiale e mi fido poco dei campi lasciati vuoti ho inserito un commento HTML.
Il concetto comunque è semplice: quello che scriviamo nel campo sostituirà il codice Header generico inserito sopra, se abbiamo attivato la spunta Replace… 

Ciao-Ciao AdSense sulla pagina incriminata.

Brutto? Senza dubbio. Sporco? Probabile. Elegante? Nemmeno per idea. Ma problema risolto, in dieci minuti. (Che visto il rendimento degli Ad, è pure troppo).

editor gutenberg un aiuto per essere più zen

E comunque a me questo editor Gutenberg sembra una figata

Sembra proprio che con la prossima major release di WordPress l’editor Gutenberg diventerà quello predefinito di default. Naturalmente gli esperti digitali non perdono occasione per dimostrare la loro vera natura. Neofobi e conservatori come neanche la DC degli anni ’80, stanno subissando l’editor Gutenberg di recensioni negative.

Eppure, l’editor Gutenberg ha del potenziale

Prima di tutto, il nuovo layout di gestione della pagina è molto più pulito, e la possibilità di usare il menu laterale alternativamente per “documento” o “blocco”, aggiunge il giusto compromesso fra l’utilizzo del testo tradizionale e la scrittura senza distrazioni, che era decisamente troppo minimalista
Quello che, a mio avviso, spaventa più di tutto è la nuova interfaccia, che inizialmente intimidisce un po’.

Certo, alcune cose sono state spostate. Ma basta abituarcisi per rendersi conto che è tutto molto più razionale e comodo. Basta prenderci la mano.

Il problema è proprio questo: prenderci la mano significa, per gli addetti ai lavori, buttare via anni di abitudini. E qui si manifesta tutta la neofobia, particolarmente italica, che deriva da quella cultura che vuole che, una volta conquistata una posizione, si possano mettere i piedi sul tavolo. Mentre il resto del mondo ci insegna una lezione diversa. Secondo un antico insegnamento zen poi ripreso dal Judo, i quattro mali del mondo sono appunto noia, abitudine, ignoranza e invidia
Senza chiamare in causa la filosofia orientale, l’editor Gutenberg sta facendo proprio quello che gli esperti di crescita personale ci consigliano sempre più spesso: uscire dalle comfort zone. Cioè, combattere l’abitudine. Tutto torna ;)

L’editor Gutenberg ci aiuta a uscire dalle comfort zone. Questo è un bene

l’editog Gutenberg impatterà con la SEO?

Mentre sto scrivendo, sto provando ad analizzare il codice della pagina di anteprima. E devo dire che mi sembra addirittura più pulito di quello dell’editor di WordPress tradizionale.

Secondo me il problema principale sarà legato all’uso dei blocchi

Devo dirlo, anche se la cosa mi renderà antipatico: il vero problema è che ci sono troppe persone, particolarmente nel mondo SEO, che ignorano le basi. Un po’ di conoscenza dell’HTML, degli altri linguaggi e dei protocolli farebbe un gran bene alla scena, ma non è la sede per parlarne. 
Qui il problema è che i blocchi riprendono un po’ la filosofia delle immagini, rendendo sotto forma di campi da compilare elementi propri dell’HTML. 
Purtroppo molti usano già male quelli delle immagini, di conseguenza useranno male quelli dei blocchi (soprattutto nella fase di entusiasmo iniziale). 

Poi, naturalmente, si lamenteranno che l’editor Gutenberg non funziona a dovere.

Quando invece funziona benissimo e, anzi, permette di generare oggetti (anche di testo) più interessanti con una frazione dello sforzo che ci voleva prima.

Ecco un paraculissimo esempio di galleria dell’editor: non sono un amante del minimalismo in senso stretto, ma lo strumento funziona decisamente bene.

Quindi qual è il problema dell’editor Gutenberg?

Personalmente, ne vedo due: uno è appunto legato alla necessità di imparare un nuovo strumento. Il secondo è legato alla competizione.

Mi spiego: grazie al nuovo “visual composer” (ammettiamolo, Gutenberg lo ricorda molto), scrivere articoli che siano anche visivamente interessanti è fin troppo facile. Per non parlare della tonnellata di nuovi strumenti di inclusione, che ora sono molto più palesi di prima e che permettono di aggiungere contenuti arricchiti in quantità.

In parole povere questo significa più competizione. E soprattutto, ancora una volta, la necessità di produrre contenuti rilevanti, consistenti, interessanti

Tutte cose terribilmente incompatibili con la filosofia dei servizi e delle prestazioni a basso costo che sta tentando con tutte le forze di rimanere a galla.

Ma alla quale, per fortuna, forse Gutenberg ci aiuterà a dare il colpo di grazia.

Speriamo

Simple Things First

Simple Things First, un approccio pragmatico alla consulenza digitale

Troppo spesso chi fa consulenza digitale dimentica di costruire dalle basi. In una recente lezione ho provato a dare una lettura diversa.

Il mondo delle consulenze è interessante sotto molti punti di vista. Uno degli aspetti che ho sempre preferito è l’opportunità di conoscere realtà diverse, esigenze diverse e nuove sfide. Se c’è una cosa che ho imparato in quasi vent’anni di consulenza strategica, digitale soprattutto, è che questo settore ha un difetto strutturale. Manca, da parte dei committenti, la percezione della consistenza del nostro lavoro.

Alzi la mano chi, da consulente digitale, non ha avuto spessissimo l’impressione che il suo lavoro venisse considerato, nella migliore delle ipotesi, un male necessario. Oppure direttamente qualcosa di inutile ma che deve essere fatto “perché lo fanno tutti”. Naturalmente qui parliamo delle aziende esterne al settore digitale e informatico quelle cioè in cui la consulenza digitale, al contrario, dovrebbe essere preziosa.

Consulenza strategica digitale? Sì, ma non dimentichiamoci le basi

Invece, troppo spesso, un consulente digitale si trova seduto a un tavolo in cui le prime parole che si sentono pronunciare sono “Abbiamo già provato, ma non ha funzionato“. Potrei, e potremmo, disquisire delle ragioni di questo fenomeno per giorni, ma non troveremmo una soluzione. Nei miei anni di esperienza, tuttavia, mi sono accorto che alcune ragioni sono in comune quasi a tutti. Ho cercato di sintetizzarle in modo più pragmatico possibile.

Questione di pratica

Spesso non viene spiegata la differenza fra una consulenza strategica e l’implementazione operativa della stessa. E per qualche curioso motivo tutto italiano, sembra che parlare del “chi fa cosa” sia una sorta di tabù. Quindi, il consulente digitale si siede al tavolo convinto che il suo lavoro finisca quando avrà delineato una strategia per il cliente. Il cliente dal canto suo non è interessato alla strategia, ma cerca qualcuno che si occupi degli aspetti pratici. E questo crea i primi fraintendimenti.

Troppe cose per scontate

Spesso i consulenti, in particolare quelli che provengono da un certo tipo di formazione o da alcune scuole di pensiero, puntano molto in alto. Si parla di CRM, di inbound marketing, di multicanalità, e tutto sembra bellissimo. Salvo poi scoprire troppo tardi che il cliente non ha gli account di posta elettronica configurati correttamente, oppure che il target del cliente fa uso marginale di strumenti tecnologici.

Insomma, si da per scontato un livello di partenza che spesso non corrisponde alla realtà.

La prima regola della consulenza strategica digitale è conoscere

Conoscere il cliente, conoscere alla perfezione l’ecosistema in cui si muove e la realtà aziendale. In un mondo perfetto, fare consulenza senza aver passato almeno qualche giorno nelle sedi del cliente dovrebbe essere vietato per legge.

Troppi infatti (ma questo è un problema condiviso con praticamente ogni settore ormai) offrono soluzioni preconfezionate, spesso basate su un’idea astratta della realtà che qualunque titolare d’azienda sa essere falsa. Peraltro, senza occuparsi o preoccuparsi dei reali problemi.

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Strumenti di amministrazione remota del server. Ovvero: cara Microsoft, perché ci odi?

Perché odi i sistemisti come categoria, intendo. La gestione degli Strumenti di amministrazione remota del server cambia con regole kafkiane.

Come sapete, scrivo poco e quasi sempre di altri argomenti, ma questa disavventura con gli Strumenti di amministrazione remota del server merita di essere raccontata. Non tanto per la “scoperta” in sé, quanto perché spiega alla perfezione un certo tipo di approccio. Del quale Microsoft sta cercando di liberarsi, ma che affligge ancora molte aziende. Parlo della furia iconoclasta, ovvero l’assoluta incapacità di conservare una procedura o una pratica in modo da agevolare gli addetti ai lavori.

Gli Strumenti di amministrazione remota del server sono una comodità

Questo è innegabile per chiunque amministri uno o più server in ambiente Active Directory: si installano su una macchina locale annessa al dominio e lo si controlla senza bisogno di accedere ogni volta al server in remoto. Da sempre, o per lo meno da Windows 7, devono essere scaricati a parte e funzionano solo con le versioni “pro” del sistema operativo. Fino a qui nulla di strano. A questa pagina si trovano i pacchetti e le istruzioni.

Qui si parte con le nevrosi

Confrontiamo la sezione Download con quella degli Strumenti di amministrazione remota del server per Windows 10

The Hell? Windows 7 ha due download: 32 e 64 bit. Facile e pulito. Windows 10 ha SEI PACCHETTI. Tre a 32 e tre a 64 bit. Che dipendono dal numero di versione di Windows 10, cioè dall’aggiornamento installato. Che va controllato nelle informazioni di sistema. Grazie Microsoft per avere introdotto un’altra possibile sorgente di errore. Ma a questo si può sopravvivere.

Ma, cara Microsoft perché cambi una procedura consolidata?

Facciamo un passo indietro. Sempre sulla pagina ufficiale del download degli Strumenti di amministrazione remota del server di Windows 7, possiamo trovare la procedura, tutto sommato semplice.

Per farla breve, consta di tre semplici passaggi:

  • Installare il pacchetto scaricato
  • aprire il Pannello di Controllo, scegliere Programmi e funzionalità -> attiva o disattiva componenti di Windows.
  • Scorrere fino a Strumenti di amministrazione remota del server e attivare quello che ci serve

Ora, Windows 7 ha nove anni. E, a memoria d’uomo, la procedura è sempre stata questa.

Fast forward a giugno 2018

Capita di dover installare gli Strumenti di amministrazione remota del server su Windows 10. Ci si confronta fra colleghi. Circolano le solite informazioni: “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li”.

Il primo tentativo va a vuoto, non trovo gli strumenti fra i componenti di Windows. Controllo di avere scelto il pacchetto giusto. Provo a scaricarlo nuovamente.

Secondo tentativo. Come il primo. Va bene, il computer ha qualche grana. Provo su un altro. Stesso risultato.

Ne provo tre. Niente di niente. Sentendomi come Zoolander davanti al computer, scrivo una mail ai colleghi più esperti.

La risposta è la perifrasi educata di quello che abbiamo detto sopra “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li“. Niente di niente.

Poi, per puro caso, uso Cortana per cercare informazioni. E mi si palesano gli Strumenti di Amministrazione Remota come gruppo di App installate. Eppure non le ho attivate. Incredulo, controllo e mando uno screenshot ai colleghi:

strumenti di amministrazione del server su WIndows 10

strumenti di amministrazione del server su WIndows 10

Bug? Malfunzionamento? Nemmeno per sogno. Microsoft, dopo quasi dieci anni, cambia la procedura. E ovviamente si premura di documentarlo. Dove?

Qui:

Le informazioni sulla nuova modalità di installazione sono a metà pagina. In un paragrafo che bisogna aprire cliccando.

Le informazioni sulla nuova modalità di installazione sono a metà pagina. In un paragrafo che bisogna aprire cliccando.

Ho conservato lo screenshot dell’intera pagina per dare un’idea delle proporzioni. Esatto. A metà di un paragrafo che deve essere aperto per potersi leggere. Quante sono le possibilità che un professionista che ha fatto la stessa cosa nello stesso modo per svariati anni ci vada a leggere prima di farla per l’ennesima volta?

Ora, colpa nostra di sicuro. A ogni piede sospinto meniamo il torrone ai nostri utenti con il fatto che le cose vanno fatte con attenzione e le istruzioni vanno sempre lette.
Ma magari quel terzo abbondante di primo scroll che Microsoft ha prontamente pensato di usare per cercare di vendermi un Surface poteva essere usato diversamente. Che ne so, magari con un annuncio: “Brava gente, guardate che in Windows 10 la procedura è cambiata: controllate le istruzioni. Nel frattempo, vi interessa un Surface? Oggi vengono via a poco“.

Purtroppo, al di là dello scherzo, questo è un dramma estremamente diffuso nel mondo IT: la gestione delle informazioni è sempre complessa, frammentaria. Provate a cercare i driver di un computer di marca di più di cinque anni fa, per esempio. Oppure la iso di un disco di ripristino.

In questo caso poi, il fatto che prima dell’informazione venga il tentativo di vendermi qualcosa rende le cose ancora più fastidiose. Perché, cara Microsoft, se sto cercando di scaricare un tool come questo, sono già tuo cliente e mi hai venduto, direttamente o indirettamente, almeno due sistemi operativi. Per non parlare di tutti quelli che “dipendono” dal mio lavoro.
Farmi lavorare meglio significa guadagnare di più nel medio e lungo termine. Sei proprio sicura che fare cassa subito cercando di stantuffarmi un Surface invece di darmi le informazioni che mi servono sia una buona idea?

Quanto costa la certificazione ECDL

Quanto costa la certificazione ECDL?

Quanto costa la certificazione ECDL in Italia, fra prezzi “ufficiali” (che non esistono) e consuetudini per chi offre certificazioni e corsi.

Rispondendo a una domanda arrivata su questo sito (ma senza mail per una risposta!) ho preso qualche informazione. Cercherò di raccontare quanto costa la certificazione ECDL in Italia, in base alle informazioni disponibili e naturalmente alla mia esperienza diretta.

Quanto costa la certificazione ECDL secondo il listino ufficiale?

Qui la risposta è facile: non esiste un listino ufficiale con i costi degli esami ECDL e della certificazione. L’istituto che gestisce la patente europea del computer non ha fini commerciali e per questo motivo non eroga direttamente corsi, non pubblica direttamente libri e così via.

In realtà, il prezzo della certificazione ECDL dipende dal test center e dal tipo di approccio che vogliamo dare. Infatti possiamo decidere di sostenere i soli esami, oppure di seguire un corso.

Quanto costa certificarsi ECDL se vogliamo sostenere solo gli esami?

Qui possiamo farci aiutare dal sito ufficiale italiano, che nella sezione Domande Generiche ha una risposta a questa domanda. Il prezzo medio da loro rilevato è di 90 euro per la skill card, cioè il “libretto” sul quale verranno registrati gli esami, e di 30 euro per esame. Per i 7 esami dell’ECDL Full Standard questo ci porta a un totale di 300 euro.

Tuttavia, basta farsi un rapido giro online per renderci conto che si tratta di un’indicazione di massima. Fra costi competitivi e convenzioni si arriva serenamente a 75 euro per la skill card 25 per ciascun esame. 250 euro in tutto.

Tuttavia non è ancora il momento di tirare fuori il portafoglio. Infatti il mio consiglio è quello di informarsi prima sui corsi disponibili. Molti di questi infatti offrono skill card e esami compresi nel prezzo. Il che ci porta al secondo punto.

Quanto costano i corsi ECDL?

Dire che si trova di tutto sarebbe riduttivo. Chi è ancora in età da scuola superiore o università può iniziare informandosi presso il proprio istituto, che spesso offe corsi gratuiti o a prezzi convenzionati. Naturalmente esistono anche corsi privati, ma il mio consiglio è sempre quello di contattare gli enti formativi della propria zona.

Sfortunatamente infatti in Italia è poco nota, ma esiste una direttiva europea chiamata Formazione Continua individuale (FCI) che mette a disposizione per qualsiasi lavoratore un “voucher” per seguire corsi di aggiornamento, non solo strettamente professionale, piuttosto consistente. Si parla di qualche migliaio di euro. Il bello è che basta chiederlo attraverso un ente formativo.

Molti enti, proprio per questo, offrono corsi ECDL a costi che, con la convenzione, diventano estremamente competitivi. E spesso includono nel “pacchetto” anche le skill card per sostenere gli esami. A conti fatti, potremmo tranquillamente arrivare a pagare il corso meno dei soli esami se li comprassimo per conto nostro.

Quindi il mio consiglio è questo: prima di cercare un test center, cerchiamo un corso convenzionato. Potremmo ottenere la certificazione ECDL risparmiando un bel po’.