Editoria Digitale ai tempi del post algoritmo

Editoria digitale: il 2018 è l’anno del fallimento degli algoritmi

Il flagello dell’editoria digitale, la raccomandazione in base ad algoritmi, mostra finalmente le sue debolezze. Il 2018 sarà l’anno della risalita?

A oggi, uno dei pilastri dell’editoria digitale è senza dubbio la SEO. La disciplina, cioè che permette di far primeggiare una pagina fra i risultati delle ricerche.
Non si tratta affatto dell’unica strategia, ma oggi è senza dubbio una delle più frequentate, per una serie di ragioni che ho già approfondito. 

Questo però ha creato una grande frattura, e una discrasia che solo un media potente come Internet poteva mostrare, ovvero il totale ribaltamento del concetto di successo nell’editoria digitale.

Editoria digitale, l’odio per la SEO e l’algoritmo impietoso

Mi spiego rapidamente: i colleghi giornalisti e le testate tradizionali, hanno visto il loro spazio contrarsi sempre di più, sotto i colpi dei “siti Internet” prima, e dei contenuti ottimizzati per la SEO poi.

A oggi, sono ancora pochi i giornalisti veri, i professionisti del settore, in grado di fare una buona SEO. Per dirla tutta, i giornalisti mediamente sono dei cani con la SEO.

Ma il problema vero è un altro, il ribaltamento di cui parlavo: il fatto che l’algoritmo premi la SEO (che è per definizione una disciplina algoritmica, anche se speculativa) ha fatto si che nelle prime pagine dei motori di ricerca molto spesso si trovino articoli scritti da bravissimi specialisti SEO, che però sono dei cani come giornalisti, e molto più spesso non lo sono affatto.

Parliamoci chiaro, io faccio entrambe le cose. Quindi, per definizione, sono un cane in entrambe. Ma purtroppo il 90% della SEO moderna, almeno secondo chi usa tecniche e strumenti, si basa semplicemente sulla forzatura dell’algoritmo. Si tratta solo di far leva sui tasti giusti. Così come nel giornalismo tradizionale si tratta spesso si fare leva sempre sui tasti giusti, ma delle persone.

Uno degli aspetti più negativi della “democrazia digitale” quindi, è di tenere costantemente il lettore distratto (nel senso classico di “tirato da due parti”) fra testi impeccabili dal punto di vista tecnico ma poveri da quello dei contenuti, e viceversa, cioè contenuti ricchissimi dal punto di vista dei contenuti ma così terribili dal punto di vista del posizionamento da dover essere letteralmente cercati col lanternino, come diciamo noi piemontesi.


Cosa sta succedendo all’algoritmo?

Lo ammetto, pur praticandola (e cavandomela discretamente nella materia) non ho alcuna simpatia per la cosiddetta scrittura SEO. Per due ragioni: perché continuo a pensare che sia una scorciatoia messa in atto da chi non sa scrivere davvero, e perché quando scrivo vorrei poterlo fare per chi mi legge, non per un algoritmo che mi valuta

Sento già i nerdissimi in lontananza: ok, non è un algoritmo, è intelligenza artificialemachine learning, o comunque un sistema estremamente raffinato. Ma è sempre una “macchina” che non capisce la banale ironia, per esempio. Vogliamo davvero tornare a ricordarci di quando il sistema di eliminazione delle fake news di Facebook mise al bando la testata umoristica Lercio?

In ogni caso, che gli algoritmi abbiano stancato è piuttosto evidente per tutti. Comprate una maglietta con un gattino su un popolare sito di commercio elettronico e da quel momento riceverete solo pubblicità di magliette con gattini. Mettete per sbaglio un “mi piace” a un post di un amico che parla di politica, e quale che sia la vostra convinzione, da quel momento verrete invasi di post di politica.

Per non parlare delle ricerche: fra geolocalizzazione, cronologia delle pagine visitate e delle ricerche fatte in passato, anche i risultati lasciano sempre più il tempo che trovano.

Insomma, gli algoritmi stanno fallendo. Non tanto perché inefficaci, ma perché troppo spesso lasciati a loro stessi, usati solo per monetizzare e per questo troppo ansiosi di assecondarci. Per non parlare di quanto siano proni ad hack di varia natura. (La SEO, a ben pensarci, altro non è che la disciplina di sfruttare l’algorimo a nostro vantaggio. Almeno, per chi ha capito e ha deciso di sfruttare solo la parte “comoda” della questione)

Editoria digitale: gli algoritmi si fanno da parte

Ovviamente, forzati dal mercato. Un esempio? Secondo Business Insider, nel 2018 un utente americano su quattro avrebbe disinstallato la App di facebook. Ok, ci sono stati una marea di problemi legati a sicurezza e privacy. Ma se alla gente fregasse davvero qualcosa di sicurezza e privacy, PornHub non potrebbe pubblicare ogni anno il suo geniale Year in Review. Diciamo piuttosto che privacy e sicurezza sono stati il casus belli per liberarsi di qualcosa che interessa sempre meno.
E il motivo dell’interesse decrescente è, guarda caso un algoritmo sempre più arzigogolato e meno efficace. Possiamo verificarlo tutti noi, per esempio rendendoci conto che Facebook tende a mostrarci sempre i post delle stesse persone, quelle con cui interagiamo di più, pensando di farci un favore. Un meccanismo che, alla lunga, sta mostrando più debolezze che forze.

Ma cosa ha a che vedere questo con l’editoria digitale e in particolare con la SEO? Moltissimo. In primo luogo perché Facebook ormai è un asset per moltissime realtà editoriali e poi perché ci spiega come anche i migliori algoritmi siano, nel medio-lungo periodi, molto più fallimentari rispetto alla gestione umana.

O meglio. Gli algoritmi sono ottimi quando servono a potenziare l’essere umano. Quando vengono usati per sostituirlo, generano mostri come le prime pagine dei motori di ricerca di una decina di anni fa, o come la nostra bacheca di Facebook oggi. Se anche una disciplina nobile come gli scacchi riconosce il valore dell’accoppiata uomo-macchina (vedi questo articolo sul Centaur Chess come punto di partenza), allora probabilmente questa è la direzione giusta.
Quindi, pur avendo perso almeno dieci anni, stiamo tornando nella direzione giusta: far fare ai computer quello in cui eccellono come l’estrazione dei dati, e far fare agli umani quello in cui eccellono, come la comprensione avanzata del contesto.

Microsoft e Google nel post-algoritmo

Microsoft ha già fatto il primo passo in questa direzione quando, questa estate, ha lanciato Microsoft News: una App che di fatto è un aggregatore di news, che utilizza sia un sistema di intelligenza artificiale (semplifichiamolo in “algoritmo”) sia la gestione curata dei contenuti da parte di persone. Se vogliamo, un ritorno alle origini, ai tempi dei primi motori di ricerca. 
Anche Google non sta con le mani in mano. Per la verità, non lo è mai stato. Anche se non è una cosa particolarmente conosciuta, Google infatti si affida anche a una rete di quality raters, cioè persone incaricate di valutare il contenuto dei siti web che andranno inclusi nel motore di ricerca. Insomma, la prossima volta che qualcuno ci parla dell’algoritmo di Google come di una figura mitologica o di una macchina senza cervello, ricordiamoci che all’interno del processo, a un certo punto, ci sono anche degli esseri umani, con tanto di linee guida da seguire.

L’editoria digitale dopo l’algoritmo

Ovviamente sarebbe folle pensare che nel breve termine gli algoritmi spariscano, ma è realistico pensare a uno scenario sempre più “misto” in cui al lavoro esclusivamente automatico si affianca quello curato da esseri umani. In alcuni casi sembra essere già così, soprattutto davanti a articoli, testate o accadimenti di particolare rilevanza.
Ma proprio questa ripartenza può essere una perfetta occasione per tutti i professionisti della scrittura che hanno sempre rifiutato le discipline SEO, per opportunità, volontà o per semplice superbia.
Oggi la SEO è ancora rilevante, ma non non è più esasperatamente tecnica come lo era in passato.

Si tratta di un tema che mi sta molto a cuore. Sostengo da sempre, supportato dai fatti ma spesso guardato con sdegno da entrambe le parti, che un buon giornalista con una preparazione basilare sulla SEO sia estremamente più efficace di un professionista SEO con un po’ di preparazione giornalistica. Anche e soprattutto in termini di piazzamento e “tenuta” sui motori di ricerca.

Sfortunatamente molti giornalisti sono molto restii a usare la SEO, perché le regole vengono vissute come una sorta di “gabbia”, di “limite”, o semplicemente perché in fondo non accettano l’idea di dover imparare a scrivere in un modo diverso.

Io, figlio dell’ultima carta stampata, penso che non ci sia poi così tanta differenza con i manuali di stile, le lunghezze, le gabbie di impaginazione e le correzioni con cui si aveva a che fare con i giornali. Chiudo quindi con un piccolo appello che, ribadisco, mi sta molto a cuore: per i giornalisti sarebbe molto facile riconquistare l’editoria digitale

Basterebbe volerlo.

Strumenti di amministrazione remota del server. Ovvero: cara Microsoft, perché ci odi?

Perché odi i sistemisti come categoria, intendo. La gestione degli Strumenti di amministrazione remota del server cambia con regole kafkiane.

Come sapete, scrivo poco e quasi sempre di altri argomenti, ma questa disavventura con gli Strumenti di amministrazione remota del server merita di essere raccontata. Non tanto per la “scoperta” in sé, quanto perché spiega alla perfezione un certo tipo di approccio. Del quale Microsoft sta cercando di liberarsi, ma che affligge ancora molte aziende. Parlo della furia iconoclasta, ovvero l’assoluta incapacità di conservare una procedura o una pratica in modo da agevolare gli addetti ai lavori.

Gli Strumenti di amministrazione remota del server sono una comodità

Questo è innegabile per chiunque amministri uno o più server in ambiente Active Directory: si installano su una macchina locale annessa al dominio e lo si controlla senza bisogno di accedere ogni volta al server in remoto. Da sempre, o per lo meno da Windows 7, devono essere scaricati a parte e funzionano solo con le versioni “pro” del sistema operativo. Fino a qui nulla di strano. A questa pagina si trovano i pacchetti e le istruzioni.

Qui si parte con le nevrosi

Confrontiamo la sezione Download con quella degli Strumenti di amministrazione remota del server per Windows 10

The Hell? Windows 7 ha due download: 32 e 64 bit. Facile e pulito. Windows 10 ha SEI PACCHETTI. Tre a 32 e tre a 64 bit. Che dipendono dal numero di versione di Windows 10, cioè dall’aggiornamento installato. Che va controllato nelle informazioni di sistema. Grazie Microsoft per avere introdotto un’altra possibile sorgente di errore. Ma a questo si può sopravvivere.

Ma, cara Microsoft perché cambi una procedura consolidata?

Facciamo un passo indietro. Sempre sulla pagina ufficiale del download degli Strumenti di amministrazione remota del server di Windows 7, possiamo trovare la procedura, tutto sommato semplice.

Per farla breve, consta di tre semplici passaggi:

  • Installare il pacchetto scaricato
  • aprire il Pannello di Controllo, scegliere Programmi e funzionalità -> attiva o disattiva componenti di Windows.
  • Scorrere fino a Strumenti di amministrazione remota del server e attivare quello che ci serve

Ora, Windows 7 ha nove anni. E, a memoria d’uomo, la procedura è sempre stata questa.

Fast forward a giugno 2018

Capita di dover installare gli Strumenti di amministrazione remota del server su Windows 10. Ci si confronta fra colleghi. Circolano le solite informazioni: “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li”.

Il primo tentativo va a vuoto, non trovo gli strumenti fra i componenti di Windows. Controllo di avere scelto il pacchetto giusto. Provo a scaricarlo nuovamente.

Secondo tentativo. Come il primo. Va bene, il computer ha qualche grana. Provo su un altro. Stesso risultato.

Ne provo tre. Niente di niente. Sentendomi come Zoolander davanti al computer, scrivo una mail ai colleghi più esperti.

La risposta è la perifrasi educata di quello che abbiamo detto sopra “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li“. Niente di niente.

Poi, per puro caso, uso Cortana per cercare informazioni. E mi si palesano gli Strumenti di Amministrazione Remota come gruppo di App installate. Eppure non le ho attivate. Incredulo, controllo e mando uno screenshot ai colleghi:

strumenti di amministrazione del server su WIndows 10

strumenti di amministrazione del server su WIndows 10

Bug? Malfunzionamento? Nemmeno per sogno. Microsoft, dopo quasi dieci anni, cambia la procedura. E ovviamente si premura di documentarlo. Dove?

Qui:

Le informazioni sulla nuova modalità di installazione sono a metà pagina. In un paragrafo che bisogna aprire cliccando.

Le informazioni sulla nuova modalità di installazione sono a metà pagina. In un paragrafo che bisogna aprire cliccando.

Ho conservato lo screenshot dell’intera pagina per dare un’idea delle proporzioni. Esatto. A metà di un paragrafo che deve essere aperto per potersi leggere. Quante sono le possibilità che un professionista che ha fatto la stessa cosa nello stesso modo per svariati anni ci vada a leggere prima di farla per l’ennesima volta?

Ora, colpa nostra di sicuro. A ogni piede sospinto meniamo il torrone ai nostri utenti con il fatto che le cose vanno fatte con attenzione e le istruzioni vanno sempre lette.
Ma magari quel terzo abbondante di primo scroll che Microsoft ha prontamente pensato di usare per cercare di vendermi un Surface poteva essere usato diversamente. Che ne so, magari con un annuncio: “Brava gente, guardate che in Windows 10 la procedura è cambiata: controllate le istruzioni. Nel frattempo, vi interessa un Surface? Oggi vengono via a poco“.

Purtroppo, al di là dello scherzo, questo è un dramma estremamente diffuso nel mondo IT: la gestione delle informazioni è sempre complessa, frammentaria. Provate a cercare i driver di un computer di marca di più di cinque anni fa, per esempio. Oppure la iso di un disco di ripristino.

In questo caso poi, il fatto che prima dell’informazione venga il tentativo di vendermi qualcosa rende le cose ancora più fastidiose. Perché, cara Microsoft, se sto cercando di scaricare un tool come questo, sono già tuo cliente e mi hai venduto, direttamente o indirettamente, almeno due sistemi operativi. Per non parlare di tutti quelli che “dipendono” dal mio lavoro.
Farmi lavorare meglio significa guadagnare di più nel medio e lungo termine. Sei proprio sicura che fare cassa subito cercando di stantuffarmi un Surface invece di darmi le informazioni che mi servono sia una buona idea?

bitcoin rederizzati

Bitcoin: opportunità, mania, o qualcosa di diverso?

Tutti parlano di bitcoin: al di la delle speculazioni, è un argomento affascinante. (warning: cyberpunk inside!)

Ok, ammettiamolo: per chiunque non sia atterrato ieri da marte, criptovalute in generale e bitcoin in particolare ci sono letteralmente scoppiati in faccia. Ora, se io fossi furbo, preparerei un bell’articolo in cui racconto come si guadagna con i bitcoin, come si usano, come funzionano i wallet per le criptovalute e così via. Ma non qui. Prima di tutto perché l’ho già fatto altrove, parlando di dove pagare in bitcoin in Italia, e poi perchè, brava gente, prima di tutto non sono mai stato furbo, e infine questo è il mio blog e non si parla di cyberpunk da troppo.

Il legame fra bitcoin e cyberpunk è più profondo di quanto sia evidente

Ok, eliminiamo subito la parte facile: si, le criptovalute nascono, esistono (e terminano la loro esistenza) interamente in bit, e questo, per chi ha iniziato a parlare di Cyberpunk con il film whitewhashed di Ghost in the Shell o con il remake di Blade Runner, potrebbe essere sufficiente. Ma non per chi, ridendo e scherzando, nel ‘96 era già entrato e uscito dallo sprawl più volte. Intendiamoci, tutto contribuisce alla causa, per cui ben venga anche chi si avvicina alla cultura cyberpunk grazie al binomio inverosimilmente superficiale “Cyberpunk = tecnologia”, sperando che poi abbia modo di approfondire.
Quello che penso, tuttavia, è che il legame sia molto più profondo, e decisamente più stretto di così. Per spiegarlo, però, dobbiamo tornare alle basi.

Cosa contraddistingue la cultura Cyberpunk?

Molti associano la cultura Cyberpunk al binomio hight tech, low life, il che è, per sommi capi, corretto, e riassunto nella definizione stessa: Cyber- (high tech) e -punk (low life). Ma prima di annoiare tutti compreso me stesso, elaboro. Le verità è che la filosofia cyberpunk contiene molto di più. Prima di tutto, come tutte le culture -punk nate fra gli anni ‘70 e ‘80, è una celebrazione dell’individualità, rappresenta la lotta del singolo contro un mondo che lo vuole standardizzato, uniformato, inquadrato. Underdog contro corporazioni, low tech, hacker, e così via, per capirsi.

L’importante è che il singolo, o il gruppo di rivoluzionari, grazie al proprio talento, alla rabbia, e alla volontà di combattere uno status quo che lo vuole soffocare, ottiene il proprio riscatto.

La tecnologia diventa uno strumento di libertà, di rivoluzione. Abbatte torri dorate, avvia una rivoluzione dove non ci sono ghigliottine o giustizie di piazza, ma dati rubati, potere sottratto e benessere ridistribuito. Ti permette di studiare a prescindere dai tuoi mezzi economici, ti da un lavoro, ti mette un tetto sulla testa, ti fa trovare Chomba come te. In alcuni casi, fino a mettere su un gruppo di nerd che, con computer, cervello e competenze tecniche, mette in scacco una nazione, o il mondo intero.

Cyberpunk di ieri

Cyberpunk di ieri – via arasaka.tumblr.com

Il futuro è imploso nel presente.

Troppo lontano dai bitcoin? Tutto il contrario. Questa storia è molto vicina ai bitcoin. Perché, quel gruppo di nerd, invece di trovarsi in un seminterrato a consumare troppa caffeina, nel mondo reale mina bitcoin, progetta blockchain, crea intelligenze artificiali che fanno trading sulla valuta meglio degli esseri umani e, soprattutto, ha reinventato il denaro attraverso le criptovalute.

Bitcoin, dai bassifondi ai grattacieli. E ritorno?

Pensiamoci: uno strumento come bitcoin, nato come moneta indipendente e scollegata dalle diverse sovranità nazionali ed economiche, considerata per molto tempo una sorta di moneta “clandestina” accessibile solo a chi avesse abbastanza conoscenza e competenze, oggi fa il suo ingresso dalla porta principale nel mondo della finanza. I corporativi in giacca e cravatta possono fare finta di nulla, ma brava gente, ricordiamoci che Silk Road ha chiuso poco più di tre anni fa, e gli stessi giornali generalisti che oggi, non comprendendo il fenomeno come loro solito, parlano a sproposito di bitcoin come una sorta di moneta miracolosa che si moltiplica da sola, tre anni fa ne parlavano come di uno strumento inventato e usato da delinquenti.

Oggi, l’economia tradizionale rincorre i bitcoin e le criptovalute, senza capirle fino in fondo, rimuginando sul fatto che non è stata in grado di arrivare in tempo e fare cassa, e in estrema sintesi, comprando la valuta da quel gruppo di nerd che si è fatto furbo e ha sostituito i portatili con gli adesivi e le felpe con il cappuccio con gli ASICs e i cluster per minare, i servizi di wallett e così via. Più riscatto di così si muore.

Ma non è finita. Perché, in fondo, l’anima delle criptovalute risiede nelle blockchain. E le radici delle blockchain sono profondamente affondate nella parte più -punk della tecnologia, dalla progettazione all’implementazione, fino alla potenza di calcolo.

bitcoin mining farm

Cyberpunk di oggi – una bitcoin mining farm – via csef.ru

I punk hanno venduto alla finanza, alle corporazioni, un collare che queste ultime non vedono l’ora di mettersi. E, ovviamente, prima o poi qualcuno inizierà a strattonarlo.
Pensate le risate se, dopo avere incassato, un gruppo abbastanza consistente dei miner più potenti dovesse decidere di ritirare i propri nodi dalle reti delle diverse blockchain.

So long and thanks for all the fish.

Altro che lunedì nero del 1987.

E buon divertimento a chi, quella mattina, avrà un consiglio d’amministrazione da affrontare.

Noi, o meglio quelli di noi che sono stati abbastanza furbi qualche anno fa, saranno su una spiaggia a godersi i soldi di qualche economista frescone.

Lezioni di SEO alla Maniera ZEN

Lezioni di SEO alla maniera Zen II | Il valore dei numeri

Cosa sono i numeri?

Il Maestro Hideyoshi stava tenendo una delle sue lezioni di SEO, quando si rese conto di un forte brusio in fondo alla sala. Gli allievi più lontani si erano accorti che in fondo alla sala si erano raccolti alcuni senpai del Maestro Takuma che argomentavano le parole di Hideyoshi a voce alta.

Chi siete voi che interrompete la mia lezione con i vostri schiamazzi?

Siamo gli allievi prediletti del Maestro Takuma. Lui insegna l’Arte della SEO in modo diverso, e noi pensiamo che abbia ragione. Per questo, riteniamo che tu non sia degno di insegnare in questa scuola.

I segreti della SEO antica

Il maestro Takuma era noto per essere stato uno degli eroi della SEO dell’epoca passata, e i suoi insegnamenti seguivano una rigida tradizione. In particolare, egli era convinto che i numeri fossero tutto e che l’importante fosse raggiungere il maggior numero di persone possibili.

Posizionarsi, ripeteva come un mantra, posizionarsi è l’unica cosa che conta! Bisogna vedere grandi numeri per vedere grandi risultati!

Molti allievi, in particolare quelli provenienti dalle famiglie più antiche delle sette Province, accorrevano da ogni parte per seguire le sue lezioni e apprendere quelli che all’epoca erano noti come i Sette Segreti della SEO.

La SEO moderna non conosce segreti

Il Maestro Hydeyoshi, dal canto suo, si rifaceva a fonti ancora più antiche, in particolare agli insegnamenti del Bushido, che insegnavano come doti irrinunciabili di un vero Samurai prontezza di spirito, flessibilità e capacità di cogliere i cambiamenti. Egli spesso apriva le sue lezioni con alcuni dei distici del Credo Zen dei Samurai, che lui riteneva particolarmente significativi:

Non ho progetti, cogliere l’opportunità è il mio progetto.

Non ho principi, l’adattabilità alle cose, ecco il mio principio.

Non ho tattica, il vuoto e il pieno sono la mia tattica.

Non ho talento, lo spirito pronto è il mio talento.

Inoltre, si rifaceva spesso ai principi della Spada, che insegnano che ogni colpo dovrebbe essere sferrato per essere letale, e al moderno principio del seiryoku-zen’yo, il miglior impiego delle energie.

Le due scuole della SEO a confronto

Secondo Hydeyoshi il principio secondo il quale era indispensabile parlare a tutti indistintamente era superato: molto meglio cogliere fra i molti i pochi con il giusto spirito. E proprio questo lo metteva spesso in contrasto con Takuma e gli altri maestri più tradizionalisti. E spesso gli allievi più scalmanati davano vita a episodi come quello.

Così voi venite nelle mie aule a mancare di rispetto a me e ai miei allievi. Sentiamo dunque cosa avete da dire. Disse Hydeyoshi con il suo solito tono pacato.

Tu insegni che i numeri non sono importanti, e che bisogna scegliere, e parlare con i pochi affini. Ma come puoi pensare di avere successo, se la moltitudine non sa chi sei?

 

Il Maestro non rispose ma, attraversando tutta l’aula e uscendo dalla porta si limitò a fare cenno a tutti di seguirlo.

I suoi allievi e quelli del Maestro Takuma lo seguirono. Dopo un lungo silenzioso cammino giunsero al grande mercato che si teneva in città quel giorno.

“Il Canto e il Silenzio”

Hideyoshi li condusse prima nei pressi della tenda di un monaco. Al centro della struttura, spoglia ed essenziale, il monaco sedeva in meditazione. In quel momento una anziana signora arrivò a chiedere consiglio. Il monaco infatti offriva cure e medicamenti, come recitava una modesta insegna.
Gli allievi del maestro Takuma rumoreggiavano: “Questo deve essere davvero un monaco da due soldi! Guardate come è vuota la sua tenda! E nessuno si accalca per le sue cure!”.

Hydeyoshi, senza parlare, li condusse poi nei pressi del banco di un imbonitore. Rosso in viso, scarmigliato, si muoveva da una parte all’altra della tenda, stipata di vasi e vasetti, decantando a gran voce le qualità del suo olio di serpente*, tanto che davanti a lui aveva sempre una piccola folla. L’uomo, quasi alterato, parlava in modo serrato, rapido, con un lieve affanno, in tono baritonale, ammiccando alla folla e raccontando i miracoli del suo unguento.

Questo si che deve essere un grande medico! Che folla, che voce!”. Gli allievi del maestro Takuma erano deliziati.

Rimasero al mercato tutto il giorno. Quando i commercianti iniziavano a ritirarsi, il Maestro divise gli allievi in due gruppi, e li mandò a parlare con il monaco e l’imbonitore.

Tornarono poco dopo. Il maestro diede prima la parola agli allievi del Maestro Takuma.

“L’imbonitore ci ha detto che è stata un’ottima giornata! Non c’è una persona del mercato che non si sia fermata dinanzi ai suoi padiglioni!”

Risultati immagini per japanese snake oil

Una dimostrazione che include un venditore esagitato, una spada e un prodotto di dubbia qualità: cosa può andare storto? (fonte foto: https://www.youtube.com/watch?v=UlESvt4AsR8)

I suoi allievi, recatisi dal monaco, raccontarono:

Per monaco è stata una giornata tranquilla. Ha meditato, contemplato e curato le persone”.

Tecniche SEO: i numeri che parlano più dei numeri

Hideyoshi sorrise, saggio e benevolo:

Quanti unguenti ha venduto l’imbonitore?

“più trenta!” risposero quasi in coro gli allievi di Takuma

Quante persone ha curato il monaco?

“Dieci”, risposero i suoi allievi.

E quanto costa un vaso di olio di serpente?

Cento Mon!”

Quante donazioni ha ricevuto il monaco?

Duemilasettecentoventicinque Mon”.

Vedendo il dubbio che si faceva strada negli occhi degli allievi, prese posto sulle pietre di un giardino poco distante.

Secondo quanto mi dite, sono duecentosettantacinque i Mon che separano l’imbonitore dal monaco. Dunque la mia domanda è questa: secondo voi quanto tempo, fatica, denaro e sforzo richiede il suo lavoro? Guardate quell’uomo ora: dorme sulla sua sedia senza nemmeno aver avuto la forza di chiudere la sua tenda. Il monaco, proprio ora, ha iniziato a fare i suoi esercizi, e la sua tenda è già pronta per domani.

Dunque, il monaco ha parlato con poche persone e tutte, o quasi, hanno scelto le sue cure e gli hanno donato ciò di cui aveva bisogno. Questo è lo spirito del seiryoku-zen’yo, il miglior impiego delle energie.

Il mercante ha dovuto prosciugare ogni sua forza per tenere in piedi la sua rappresentazione per tutto il giorno, e sono certo che il denaro guadagnato in più non sarà nemmeno sufficiente per comprare altro unguento, spostare le sue merci e farle sorvegliare. Questo non è un buon impiego delle energie. Nessuna tecnica SEO, nessun trucco potrà mai restituirvi l’energia che avete sprecato per un vantaggio marginale, che se ne andrà in sforzo, fatica, tempo e risorse. Meglio dunque impiegare fin da subito le energie nel modo migliore, dialogando con le persone che hanno realmente bisogno di voi, senza bisogno di far sentire la vostra voce a chiunque indistintamente. Con le antiche tecniche ottenete il solo risultato di assordare chi non ha bisogno di voi e non avere voce per chi vi sta cercando.

Gli allievi rimasero qualche istante in silenzio. Anche i più audaci non poterono fare altro che guardare il Maestro Hideyoshi con fare di sfida, prima di inchinarsi e allontanarsi.

Lezioni di SEO alla maniera Zen – oltre il racconto

Anche questa volta, dietro a un piccolo divertimento, si nasconde uno degli argomenti che più riscaldano le discussioni sulla SEO (anche se per la verità accade praticamente la stessa cosa in ogni settore del marketing). La “vecchia scuola” vuole che si inseguano le keyword a ogni costo, si parli di un argomento perché “tira” e così via. Il che, nella maggior parte dei casi, genera mostri, soprattutto quando la connessione è evidentemente forzata. Insomma, si costruisce il piano di comunicazione sulla base del traffico delle keyword e del sentiment.

Spesso, durante i miei corsi e le mie lezioni di SEO, definisco questo modo di agire “costruire il piano editoriale con BuzzSumo”, a indicare chi, invece della propria rotta, preferisce lasciarsi trascinare dalla corrente. I difetti principali che vedo in questo sistema sono almeno tre:

  • Siamo e saremo sempre schiavi delle mode e delle contingenze (oltre che degli strumenti);
  • Non avremo nulla che ci differenzia da chi ha accesso ai medesimi strumenti e usa la stessa tecnica;
  • Ma soprattutto, non abbiamo alcuna garanzia di rivolgerci al nostro pubblico.

Una scuola che si sta facendo sempre più strada, anche in questo caso mutuata dal marketing, in particolare da quello non convenzionale, è quella di parlare esclusivamente al proprio pubblico, o quantomeno alle persone che, in qualche modo, hanno affinità con noi.

In altre parole, abbiamo davvero bisogno di una pagina posizionata per una parola chiave “forte” con un contenuto che spesso è al limite dello scam? Se pensiamo di si, chiediamoci cosa ce ne facciamo di quindicimila visitatori al giorno se poi il tempo di permanenza è di dieci secondi e il bounce rate è al 96%. Abbiamo sprecato tempo ed energie per coinvolgere 600 persone, forse. Se avessimo parlato alla nostra nicchia, con ogni probabilità avremmo ottenuto lo stesso posizionamento con una frazione dello sforzo, con il vantaggio di avere un pubblico molto più fedele, che probabilmente tornerà a prescindere dai motori di ricerca (il fine ultimo, per chi non vende, deve essere il bookmark!).
Oltretutto, ci addentriamo decisamente nelle finezze, avere meno utenti significa usare meno risorse del server, meno banda, meno memoria e in generale avere meno “grane” tecniche.

Illustrazione di un maestro Zen

L’impassibile Maestro Hideyoshi sempre intento a meditare sui segreti della SEO (…?)

Pochi ma buoni? Non proprio ma…

Ovviamente il vantaggio è più percepibile per i siti commerciali: chiunque vorrebbe avere il 100% degli utenti che acquistano!
Ma anche per chi guadagna sulla pubblicità o comunque ha un modello di business basato sui contenuti, per controintuitivo che possa sembrare, è preferibile avere un numero minore di utenti di qualità invece di servire decine di migliaia di pagine per sessioni da 1,10 pagine di media. Perché?

Semplice: se una persona naviga a lungo sul nostro sito, significa che ha trovato quello che sta cercando. Di conseguenza, se siamo stati bravi anche con l’advertising, significa che probabilmente anche i nostri annunci (o le iniziative di affiliazione, o quello che vogliamo) sarà ugualmente pertinente. Quindi, più interessante.

Quindi, ecco che ritorna attuale il il miglior impiego delle energie: più saremo accorti, più i nostri sforzi saranno efficaci.

#writeforhumans

Immagine di apertura dell’utente ncoll36 di Deviantart, rilasciata sotto licenza Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0.

 

Cyberpunk News: Mondo 2000 ritorna a pubblicare

Spesso il caso, o il destino, per chi ci crede, è più bravo di noi a fare i nostri interessi. Così, capita che in una domenica pomeriggio fra le più pigre degli ultimi mesi, senza sapere bene cosa fare, mi trovo a riaprire il buon vecchio slashdot dopo mesi. Fra le notizie, molte delle quali in apparenza sempre più lontane dal mio mondo, me ne salta agli occhi una.

La notizia del rilancio di Mondo 2000 su Slashdot

La notizia del rilancio di Mondo 2000 su Slashdot

Apparentemente, uno dei tanti tentativi di rilancio, più o meno riusciti, basati sull’effetto nostalgia. Ma il vecchio cane dello Sprawl che dorme in fondo ai miei ricordi, legge il paragrafo sotto e le parole hypercultureinteractive mutational forms lo mettono in allarme come il campanello di quel certo Pavlov. Così mi faccio un giro sul sito di Mondo 2000 e scopro con gioia che non ho completamente perso l’occhio.

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Il barone di Munchausen e i segreti SEO

11 Segreti SEO da usare assolutamente, se vuoi perdere tempo

Lo sostengo da sempre, come può testimoniare chi ha seguito le mie lezioni di SEO o di web marketing in generale: il mondo della SEO è pieno di fuffa, e una parte piuttosto significativa degli esperti SEO vende olio di serpente, ripetendo praticamente a memoria una serie di Segreti SEO e tecniche SEO che nella migliore delle ipotesi fanno solo confusione nella testa di chi compra il servizio.

Nella peggiore fanno clamorosi danni alle convinzioni sulla SEO. Se qualcuno sta pensando a certi semafori che devono essere tutti verdi, alla keyword density e ad altre credenze animistiche del genere, non sono nemmeno le peggiori.
Provate per esempio a venire a capo dell’eterno dibattito sulle keyword in grassetto versus keyword non in grassetto. Fate qualche ricerca e verrete proiettati in un mondo splendidamente surreale, con dei picchi che nemmeno il compianto Pratchett avrebbe potuto raggiungere con quella faccenda del cavallo di legno nella guerra tra Efebe e Tsort. Fra il ridicolo e l’assurdo si passa da “Le keyword vanno enfatizzate perché così i crawler le rilevano prima” a “Omioddio! Non mettere mai le keyword in maiuscolo perché se le metti Google pensa che vuoi spammare e ti penalizza”. Con ogni possibile sfumatura nel mezzo, a seconda di quando il consulente SEO di turno si è addormentato sulla tastiera leggendo male e capendo peggio le discussioni che ci sono sui vari forum di specialisti. (Pro tip: fate come preferite, l’importante è che sia funzionale alla lettura e pertinente. Come sempre, chi non usa trucchetti SEO da due soldi non ha nulla da temere).

I segreti SEO e le disanime in corso

Il Mangiafuoco di Pinocchio ha segreti SEO mai sentiti prima!

Un tipico seminario SEO ;)

Quello raccontato poco sopra è solo uno dei tanti esempi fra la tragedia e la commedia che si leggono e sentono ogni giorno. Per fortuna ci ha pensato il buon Jeff Bullas che ha stilato qualche tempo fa una lista chiamata 11 miti sulla SEO a cui dovete smettere di credere oggi. Per fortuna perché forse, leggendolo dalle pagine del suo blog e trattandosi di uno dei maggiori esperti di SEO al mondo, ci sono buone possibilità che qualcuno lo ascolti. Ho pensato di tradurre almeno i titoli e le spiegazioni principali a favore di chi va di fretta e non mastica troppo l’inglese, aggiungendo di tanto in tanto qualche mio commento in corsivo.

11 “Segreti SEO” che vi condurranno a rovina sicura

1. La SEO è una fregatura

Il mito: Consulenti SEO dalla lingua sciolta fanno consulenze da capogiro per fornire servizi senza spiegazioni, che non fanno quasi nulla e potrebbero addirittura penalizzare il vostro sito.

La realtà: La SEO non è una fregatura. Moz in tre anni usando SEO e Content Marketing ha raddoppiato le ricerche organiche.

Jeff Bullas la spiega meglio e più diffusamente, ma la ragione per cui è nato questo mito è ovviamente da cercare in tutti i furbetti che negli anni hanno usato e stanno usando trucchetti e tecniche fantasiose per mostrare incrementi di ranking e di traffico mirabolanti, che poi crollano come castelli di carte appena la tecnica viene riconosciuta illecita. Ma quella non è SEO, sono porcherie.

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Lezioni di SEO alla Maniera ZEN

Lezioni di SEO alla maniera Zen

Il Maestro e l’arte della SEO

Il Maestro Hideyoshi era conosciuto e rispettato per la sua illuminazione. Il potere della sua parola era conosciuto e rispettato in tutte e sette le province; quando teneva le sue lezioni di SEO, radunava allievi anche dalle città vicine.

Un giorno, mentre camminava nei giardini del palazzo imperiale prima della sua lezione, gli si avvicinò un allievo, chiedendo il permesso di fare una domanda.

Il maestro, facendo cenno all’allievo di sedersi accanto a lui, lo invitò a parlare con un cenno del capo.

Tanta era la fama del maestro e tale l’effetto delle sue parole che subito intorno a loro si radunò una folla di allievi e di altri maestri.

Maestro Hideyoshi, voi ogni giorno ci mostrate la Via della SEO, ma essa ancora mi sfugge. Qual è la conquista finale della nobile arte della SEO? Disse l’allievo, intimorito dalla folla.

Lezioni di SEO: il Primo Gradino

A quelle parole, il maestro si alzò in piedi e, indicando un punto del parco con il suo bastone disse:

“Vedete laggiù, dove si allenano nell’arte della spada i giovani allievi? Grande è la loro determinazione e il loro impegno. Conoscono le tecniche, le studiano, le praticano. Ma i loro movimenti sono impacciati, perché la conoscenza ancora non scorre fluida in loro. Il primo gradino nell’Arte della SEO è la SEO nella mano dell’uomo. Come quei giovani, l’uomo conosce, studia, si migliora. Ogni giorno la sua tecnica diviene più fluida, e la sua mano sicura”.

Lezioni di SEO: il Secondo Gradino

Vedendo che il dubbio non si dileguava dagli occhi dei presenti, il maestro indicò un altro punto del parco.

“Vedete laggiù, dove i senpai si allenano nel kata? La loro determinazione è ancora più salda, i loro occhi più sicuri. La loro tecnica è fluida, i movimenti impeccabili, ma ancora sono legati e costretti dalla Forma. La conoscenza scorre con forza, ma è trattenuta come l’acqua in un canale. Non potrebbero scendere in combattimento o in guerra, il loro passo non sarebbe sicuro. Il secondo gradino nell’Arte della SEO è la SEO nella mente dell’uomo. Ormai la mano si muove da sola, la mente conosce tutti i princìpi, ed è pronta ad apprenderne di nuovi”.

Ciò detto, si incamminò verso il tempio per la lezione.

Il Segreto della SEO rivelato

Maestro Hideyoshi, è dunque questo il segreto della SEO?

Il maestro, sospirò, fermandosi e, senza voltarsi, indicò un terzo punto del parco, dove il Maestro Yuddai affrontava gli avversari in combattimento. Il Maestro Yuddai era famoso in tutto l’Impero per non essere mai stato battuto.

“Tutti voi conoscete il Maestro Yuddai per la sua potenza Vedete come atterra gli avversari uno dopo l’altro?”

Gli allievi erano senza parole, tante erano la grazia e la forza del Maestro Yuddai nel combattere.

Senza dubbio egli è il più grande fra i grandi, e la sua tecnica non ha eguali. Risposero gli allievi.

“Bene” – continuò Hideyoshi – “Dunque, nominatemi le tecniche che il Maestro sta usando mentre combatte”.

Dopo alcuni minuti di silenzio, il saggio Hideyoshi ripetè la domanda.

Maestro, non siamo in grado di nominare le tecniche usate dal grande Yuddai. Sono forse di una scuola segreta?

Hideyoshi si voltò con un sorriso sincero: “Io stesso non conosco le tecniche del Maestro Yuddai, perché nessuno le ha mai usate prima. Egli è il più grande fra di noi, e sa eseguire ogni tecnica in maniera sopraffina. Eppure quando combatte, non usa alcuna tecnica conosciuta. Questo perché la Via è così radicata in lui da guidarne ogni passo. Il terzo gradino dell’Arte della SEO è l’assenza della SEO dalla mente e dalla mano dell’uomo. Solo così la vostra tecnica sarà senza eguali, e il vostro nome verrà tramandato dai maestri”.

Illustrazione di un maestro Zen
Il Maestro Hideyoshi mentre medita sui segreti della SEO (probabilmente…?)

Nota a margine:

un piccolo divertimento domenicale per ricordare, soprattutto a me stesso, che un’altra via è sempre possibile, e che si può parlare di ogni cosa in modo diverso, senza dimenticare o snaturare le proprie origini. Il senso di questo modestissimo divertimento sotto forma di racconto Zen tuttavia, è serissimo: non ci sono trucchetti, non ci sono “trucchi SEO” o “cinque tecniche infallibili”. Ci sono studio, dedizione, impegno. C’è provare, cadere, rialzarsi. Ci sono le prove, gli esperimenti, i tentativi. Chi ragiona per “regole”, per “ho letto che”, “Gino scrive che”, esattamente come nelle arti marziali, sarà sempre relegato al grado di allievo. Perché, come nelle arti marziali, la tecnica perfetta, se non si sa combattere, serve solo a dimostrare la propria abilità agli altri allievi. Ma non serve a nulla sul campo di battaglia.
E, come sempre, la morale è una: fino a quando scriveremo per le macchine e non per gli esseri umani, alla nostra arte mancherà qualcosa. Fino a quando ci fideremo di regole preconfezionate, e non proveremo a metterci un po’ del nostro spirito e della nostra anima, saremo sempre esecutori: intercambiabili, anonimi, senza personalità. E ci condanneremo a strategie tutte uguali, fatte per linee editoriali tutte uguali, pensate solo per soddisfare quello che alcuni pensano sia il “giudizio” dell’algoritmo di Google.

Che poi è il motivo principale per cui mi sono lanciato in questo ciclo di lezioni di SEO: l’unico vero modo per mettere alla prova la propria conoscenza, è quello di provare a trasmetterla ad altri.

Come sempre, #writeforhumans.

Immagine di apertura dell’utente ncoll36 di Deviantart, rilasciata sotto licenza Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0.

Google mette l’interruttore a Skynet

Una notizia di qualche giorno fa ci raccontava di come Google Deepmind e molti altri nomi celebri del mondo dell’intelligenza artificiale stessero lavorando a una sorta di bottone rosso per le forme di intelligenza artificiale. Lo scopo, secondo le fonti più celebri, sarebbe quello di impedire alle intelligenze artificiali di perseverare in una sequenza di operazioni pericolose.

Voglio cedere al fascino per un minuto e pensare che Google, attraverso la divisione Deepmind, stia pensando a una sequenza di interruzione, se vogliamo un bottone rosso per spegnere tutto, o una safeword per quando le cose si fanno troppo estreme. E naturalmente tornano in mente Skynet che si procura da sola l’energia elettica, bombarda le superpotenze e conquista la Kamchatka, o le macchine di The Matrix e alla loro mania di giocare a farmville con gli esseri umani al posto dei pomodori.

the-terminator

Ci siamo capiti – via IndieWire

 

Niente bottone rosso, scienza a palate

Immaginare un tastone rosso sulla scrivania del supervisore di turno o del presidente degli Stati Uniti però è una semplificazione. Estrema. Immaginate di dover spiegare a un bambino di quattro anni come risolvere una equazione redox. Più o meno è il compito che è toccato ai divulgatori e giornalisti. Perché il documento originale è roba seria. E per roba seria, intendo di quella che ti fa tornare gli incubi degli esami di analisi, e subito dopo rimpiangere di non averla capita quando era ora.

Interruptibility.pdf

E non è nemmeno la più tosta – via Safely Interruptible Agents

Per fortuna, dopo 10 pagine in bilico fra piacere, dolore e schiaffi a mani aperte all’analfabetismo funzionale,  ci sono delle conclusioni, probabilmente scritte in un momento di pietà per gli esseri umani che i limiti li hanno visti solo nel compito in classe di quarta superiore. Qui capiamo che lo scopo di questo documento è quello di permettere agli operatori di interrompere in modo sicuro un processo di apprendimento e assicurarsi che l’agente, cioè l’intelligenza artificiale in fase di sviluppo non impari a prevenire queste interruzioni. Inoltre il documento ci lascia con un tema affascinante.

“Una importante prospettiva futura è di considerare interruzioni pianificate, dove l’agente è interrotto ogni notte alle 2 del mattino per un’ora, o avvisato in anticipo che avverrà un’interruzione in un momento preciso”

Ora, ditemi che solo io ho pensato a questo:

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Intelligenza artificiale – chi condiziona chi?

Se volessimo fare una lista di tutte le opere Sci-Fi (e non solo) in cui il dilemma etico sulla creazione e la “educazione” delle intelligenze artificiali è un tema portante, o addirittura fondamentale, potremmo stare qui intere settimane a discuterne. L’intelligenza artificiale ha preso, nell’immaginario collettivo, il posto del robot del secolo scorso. Quello che rimane invariato, ed è un tema ricorrente, è una forma di timore ancestrale, di rivalità nei confronti della “macchina” che ha ineluttabilmente una connotazione negativa, è sempre antagonista, nemica o quantomeno ambigua e pericolosa.

Pinocchenstein

Questa ve la spiego, giuro ;)

C’è chi fa risalire questo timore al primo grande shock tecnoculturale, la rivoluzione industriale. Io non sono completamente d’accordo. Ne abbiamo parlato a lungo quando con i fratelli Mercenari a Vapore  si tenevano conferenze sullo Steampunk. Da Prometeo a Icaro, passando per la stessa Torre di Babele, la mitologia e la tradizione non perdono occasione per sottolineare il rapporto controverso con il progresso, con l’Artefatto. Perché, in fondo, il processo di creazione che l’uomo può mettere in atto con le proprie mani è incompleto, inanimato. E qui potrei mettere in cantiere una lunghissima dissertazione che parte dalla differenza fra la Creazione che dona la vita e la creazione incompleta figlia dell’intelletto, passando per l’alchimia per approdare ai due fratelli più improbabili della letteratura, il mostro di Frankenstein e Pinocchio, ma andrei troppo lontano dal punto. Se vogliamo ridurla ai minimi termini, il nostro cervello non si è ancora fatto una ragione di non essere in grado, dopo millenni di studi, di fare quello che ai nostri lombi costa dieci minuti di fatica. E sappiamo che l’invidia della ragione genera mostri molto più pericolosi di quelli del sonno.

Chi ha paura dell’Intelligenza Artificiale?

Tutta questa enorme tirata, apparentemente senza capo né coda, per rispondere a due domande fondamentali, che in un certo modo sono due facce della stessa medaglia: Abbiamo davvero bisogno di un interruttore di emergenza? e soprattutto, Dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale?

Sì e sì

Ma per ragioni diverse da quelle più dirette.

Perché, se ci piace tanto pensare che un giorno le macchine si ribelleranno, è soprattutto colpa della coscienza collettiva. Per ora, al massimo, un’intelligenza artificiale ci ha preso a male parole. Tay, L’esperimento di Microsoft chiuso in fretta e furia a marzo, in ventiquattro ore è sfuggita al controllo ed è diventata un’entità perversa, razzista e genocida. Per fortuna era solo un bot collegato a Twitter. Ma del resto, è stata abbandonata alla mercé di Internet “per imparare a interagire con gli umani in modo più umano”. Su un Social come Twitter. Più o meno come essere buttati da un elicottero fra ultrà e polizia fuori dallo stadio “per imparare la difesa personale”. Tanto che c’erano, potevano farle un account su Tumblr e iscriverla a 4chan, poveretta. E comunque, ci ha messo molto più di Ultron, che in due minuti di Internet aveva già deciso di sterminarci.

SVEEEEGLIAAA!!!1!!!1 STOCAZZO pareva brutto

VE LA DO IO LA “SVEGLIAAAAAA!!!1!!1!!!1111!”

Sto (nuovamente) divagando: il punto è che, mai come oggi, la realtà condiziona la finzione, e viceversa. Negli anni ’80 e ’90 avevamo le prime avvisaglie di un futuro in cui la tecnologia sarebbe passata da utilità a necessità, e poi a dipendenza. E le abbiamo riversate, come accade sempre, nelle opere di fantasia. Cito solo, ma l’elenco sarebbe eterno, Wargames: giochi di guerraTerminatorRobocopThe Matrix perché sono i primi che vengono in mente a tutti, ma allargando appena un po’ l’orizzonte nel tempo e nelle tematiche, includere tutto quello che va da HAL 9000 a Christine – La macchina infernale è fin troppo semplice.

Oggi, quel timore ancestrale che abbiamo riversato nell’immaginario, torna a galla, molto più forte di quello che possono averci lasciato Corto circuito o Weird Science, che comunque avevano i loro risvolti dark. E chi ha visto quei film e ha letto quei libri da ragazzo o bambino, oggi progetta software, hardware, interfacce. E come accade, per esempio, nel design delle auto, alcune delle quali somigliano sempre più a quelle di videogiochi e fumetti, anche in questo caso, la tautologia si chiude: l’immaginario, generato dalla realtà, origina opere di fantasia, che ineluttabilmente condizionano la realtà. Come se, nel corso delle generazioni, gli archetipi tornassero a loro stessi dopo essere stati distillati dalla coscienza collettiva dell’umanità.

Quindi, sì, dobbiamo temere l’intelligenza artificiale, o meglio, dobbiamo temere il pessimo uso che l’umanità in generale sa fare degli ottimi strumenti che costruisce. Ma questo è un aspetto marginale, e tutto sommato di facile risoluzione.
Il punto vero è: sì, abbiamo bisogno di un “pulsante di emergenza”. Per sentirci rassicurati e allontanarci dallo spettro di paure che appartengono al passato. In fondo, temiamo ancora il rancore degli dei contro Prometeo.

Johnny Mnemonic

Cyberpunk news: gli implanti neurali sono più vicini

Quando ho aperto questo blog mi sono proposto di parlare soprattutto di questioni professionali, ma questa notizia è troppo ghiotta: gli implanti neurali* sono un passo più vicini.

Una di quelle poche notizie all’anno che, pur avendo a che fare in modo solo tangente con la mia professione, mi sanno affascinare. Peccato averla appresa da Business Insider che fa un po’ di confusione in campo fantascientifico (o fa furbescamente finta in nome del SEO, così riesco anche a infilarci un minimo di professionalità) e cita Matrix quando l’esempio migliore sarebbe Johnny Mnemonic, ma per fortuna i giornalisti anglofoni hanno l’abitudine (da noi ormai smarrita) di citare le fonti.

Così mi trovo a leggere un articolo sul sito della DARPA, agenzia militare americana, il che aiuta molto il gusto cyberpunk, in cui si si parla di stimolazione elettrica mirata come sostegno per la memoria. In pratica, ma vi consiglio di leggere l’articolo originale per i dettagli tecnici, inserendo una matrice di elettrodi in zone specifiche del cervello i ricercatori sono riusciti a stimolare gruppi di neuroni e a migliorare le prestazioni mnemoniche in “alcune dozzine di volontari”. Per il momento l’esperimento riguarda solo la memoria dichiarativa, che stando all’articolo è quella più semplice da gestire e decodificare. L’obiettivo primario è quello di aiutare chi ha deficit mnemonici, ma in futuro la ricerca cercherà sia di ricostruire i processi alla base della memorizzazione, fino ad arrivare a migliorare la resa dei ricordi o addirittura ad aiutare l’apprendimento di abilità:

In related work, DARPA is about to launch a new effort to develop neurotechologies that may help individuals not just better remember individual items but learn physical skills.

Matrix

Conosco il Kung Fu!?

Insomma, un futuro in cui i chip di abilità diventano direttamente un sistema di upload delle abilità come in Matrix ? (alla fine in qualche modo aveva ragione Business insider) Siamo ancora nella fantascienza. Intanto però al mondo c’è qualcuno la cui memoria è aiutata da un implanto neurale rudimentale.

The future has imploded into the present

 

 

*prima che ve lo chiediate, la terminologia corretta è “impianti neurali”. La dicitura che ho adottato in questo intervento, “implanti neurali” è un retaggio della cultura (e dei giochi di ruolo) cyberpunk degli anni ’90. Mi piaceva conservarla così proprio per distinguerla dalle questioni mediche in senso stretto.

Open Humans Network

Umani Open Source per la ricerca – MCCPost

Ieri ho scritto per MCCPost un articolo un po’ fuori dagli schemi, in cui affronto un argomento attuale e controverso: il connubio fra tecnologia, medicina e ricerca. Potete trovare i dettagli nell’articolo, ma la sostanza è che Open Humans Network, una neonata fondazione, permette a qualsiasi cittadino statunitense di donare alla scienza i propri dati medici, rinunciando a una parte della propria privacy a vantaggio della ricerca.

Certo, ci cono decine di interrogativi, in particolare sul tipo di verifica che verrà fatto sulle credenziali dei ricercatori che chiedono di utilizzare questi dati, e sul rigore scientifico con cui verranno raccolti. Il secondo però è un problema di tutti i sistemi di raccolta diffusa, è già stato sollevato anche per ResearchKit di Apple.

Rimane però un punto, importante: quanto la tecnologia, anche quella che usiamo quotidianamente, può aiutare la scienza in generale e quella medica in particolare?

Moltissimo. Ma ci vogliono le giuste competenze. Per il momento, almeno a leggere quello che accade nella “mia” rete, sembrano essersene accorti più gli esperti di tecnologia che quelli di medicina. Prima di tutto, probabilmente, perché conosciamo meglio le potenzialità degli oggetti che usiamo ogni giorno, poi perché sappiamo perfettamente che la tecnologia non è solo un fastidio innestato a forza nelle procedure quotidiane che funzionavano benissimo con la carta. Infine, perché un appassionato di tecnologia non è passato attraverso gli anni ’90 senza aver ascoltato almeno una volta la voce della sirena della cultura Cyberpunk.

Tornando a noi, ci vogliono le giuste competenze. Che non possono e non devono essere solo quelle tecnologiche. Come amo ripetere anche durante i miei corsi, Il Digitale deve offrire soluzioni, non creare problemi. Vale anche per la tecnologia in generale, ma purtroppo, quello di “lasciar fare agli informatici” è un vizio piuttosto diffuso nel nostro ambiente, che spesso ha portato più problemi che soluzioni. Interfacce inusabili, comunicazione assente, valore aggiunto imperscrutabile, sono tutti difetti che hanno portato al problema di cui sopra, cioè la scarsa adozione della tecnologia, proprio negli ambienti in cui, forse, servirebbe di più.

Chissà se l’attenzione sollevata da iniziative come questa porterà, finalmente, a un dialogo costruttivo fra il Digitale, che deve essere uno strumento, e la ricerca, che in questo caso è il fine. Medicina, è il momento di fare la tua mossa.